Sacrario
Il sacrario in ricordo dei martiri della Resistenza reggiana nasce subito dopo la guerra come gesto spontaneo dei famigliari e dei compagni caduti, che cominciano ad affiggere fotoritratti al muro adiacente la Galleria Parmeggiani. Il 25 aprile 1950 il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi inaugura una prima sistematizzazione, una targa/sacrario lunga circa dieci metri per un’altezza superiore ai due metri. Il monumento attuale, inaugurato nel 1985, ne è una rielaborazione, ricostruita nell’area verde adiacente ai monumenti dedicati alla Resistenza e ai caduti del 7 luglio 1960, e ricorda i 615 caduti delle diverse formazioni partigiane operative nel reggiano tra l’8 Settembre del 1943 e il 25 Aprile 1945. Il monumento è composto da dieci steli metalliche, ognuna delle quali ospita circa sessantadue fotografie accompagnati dai nomi dei partigiani caduti.
Antonio Zambonelli dell’ANPI di Reggio Emilia ricostruisce la storia del sacrario.
Il Libro
SINTESI STORICA
II 28 luglio 1943 le maestranze delle Officine Meccaniche “Reggiane” si accingevano a manifestare per la pace uscendo dalla fabbrica, quando un reparto di bersaglieri, in conformità alle disposizioni governative di quei giorni contro i manifestanti, aprirono il fuoco uccidendo 9 operai, tra cui una donna, e ferendone molti altri.
II Comitato provinciale del Fronte nazionale, composto da esponenti di varie correnti politiche, si fece portavoce, presso le autorità del tempo, delle aspirazioni popolari nella difficile parentesi dei “45 giorni” (Il periodo che va dal 25 luglio 1943 , giorno dell’arresto di Mussolini, all’8 settembre 1943 , il giorno dell’armistizion con gli Alleati).
Fu il primo passo verso la più sostanziale unità che, nel successivo settembre, si creerà con la costituzione del Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale. Ne faranno parte i rappresentanti dei partiti comunista, socialista, d’azione e democristiano.
I tedeschi, la notte sul 9 settembre, a poche ore dalla proclamazione dell’armistizio, occuparono le caserme e gli edifici pubblici. In tentativi sporadici di difesa contro la prepotenza nazista, si ebbero tra i militari italiani le perdite di 5 morti e 11 feriti.
Centinaia di soldati poterono sottrarsi alla cattura, in virtù della solidarietà popolare. Altri invece, pure numerosi purtroppo, vennero deportati in Germania.
Il tentativo del nuovo governo fascista di mobilitare i giovani per continuare la guerra contro gli anglo-americani, incontrò in provincia l’ostilità popolare, che si tradusse poco dopo nei primi sabotaggi e nelle prime azioni partigiane in pianura e in montagna.
Da quel momento la lotta si inasprì. La barbara regola della rappresaglia fu inaugurata. Le prime vittime furono i sette Fratelli Cervi (poi medaglie d’argento “alla memoria”), che vennero fucilati il 28 dicembre 1943, e don Pasquino Borghi (poi medaglia d’oro “alla memoria”), fucilato con altri 8 patrioti il 30 gennaio 1944.
Le “Reggiane”, che per volontà dei nazifascisti avevano ripreso la produzione bellica, furono bombardate violentemente il 7-8 gennaio da formazioni di aerei alleati. Si ebbero tra i civili 266 morti e 261 feriti. Gran parte delle maestranze vennero disperse. Parte dei lavoratori vennero trasferiti, col macchinario recuperato, in altre località del nord. Altri lavoratori si diedero invece alla macchia, sfuggendo così ai reclutamenti per il lavoro obbligatorio in Germania e in parte andranno di lì a poco a rafforzare le nascenti formazioni partigiane operanti in Val d’Asta e nella Valle dell’Enza.
In pianura cresceva l’attività dei gappisti, che ora erano affiancati dal “paramilitare”, una organizzazione che svolgeva compiti ausiliari e che aveva i suoi punti di forza nelle “case di latitanza” istituite per lo più nelle campagne.
Lo sciopero del 1° marzo, non essendovi più una forte massa operaia alle “Reggiane”, fu sentito particolarmente nelle campagne. A Montecavolo la popolazione manifestò per la strada e disarmò anche alcuni militi della G.N.R..
Le formazioni reggiano-modenesi della montagna, che da qualche tempo facevano vita in comune, si scontrarono il 15 marzo a Cerrè Sologno (Villa Minozzo) con una compagnia mista di nazifascisti. Dopo alcune ore di aspro combattimento i patrioti misero in fuga disordinata i nemici infliggendo loro durissime perdite in morti e feriti. Sette partigiani caddero nello scontro. Le formazioni però si frazionarono per poter sfuggire all’accerchiamento di altre notevoli forze fasciste e tedesche affluite nel frattempo in montagna.
Qualche giorno dopo (20 marzo) queste forze effettuarono una grave rappresaglia contro il paese di Cervarolo, colpevole di aver dato viveri ed asilo ai combattenti della libertà.
Ben 24 persone, tra cui il parroco don G.B. Pigozzi, vennero fucilate. Il paese fu distrutto dalle fiamme.
Nel maggio i comandi nemici, impressionati per l’aumento del ribellismo proposero ai partigiani di deporre le armi entro il giorno 25 se non volevano essere “inesorabilmente” schiacciati dalle massicce operazioni di rastrellamento che sarebbero iniziate subito dopo.
Per tutta risposta i partigiani, che nel frattempo avevano ricevuto un lancio di armi da aerei alleati il 24 maggio attaccarono il munitissimo presidio fascista di Villa Minozzo. La lotta continuò dall’alba al tramonto, quando le truppe fasciste giunsero da Reggio per il minacciato rastrellamento. I partigiani abbandonarono allora Villa Minozzo ed attesero i rastrellatori all’ingresso della Val d’Asta, in punti obbligati, infliggendo loro perdite tali da indurli ad interrompere le operazioni. Da segnalare il tragico epilogo del disarmo del presidio fascista di Cerredolo avvenuto il 4 maggio 1944.
Tra il 31 maggio e l’8 giugno i patrioti disarmarono i presidi fascisti di Ramiseto, Cervarezza, Collagna, Ligonchio, Carpineti, Baiso ed assediarono quelli di Toano e Villa Minozzo. Il 9-10 giugno i fascisti, con forze fatte affluire da altre province, effettuarono una grossa puntata. Essi svincolarono i due presidi assediati e li ritirarono abbandonando i paesi in mano ai partigiani. Contemporaneamente, dopo un furioso combattimento sostenuto allo Sparavalle, che costò loro dure perdite, rioccuparono i paesi di Cervarezza, Busana e Collagna allo scopo di tenere aperta la Strada Statale n. 63. All’infuori di questa strada, che fu teatro di scontri fino alla liberazione, tutta la montagna rimase occupata dai partigiani che la amministrarono democraticamente promuovendo tra la popolazione le elezioni per i Consigli Comunali.
Il giorno 23, una squadra di partigiani, mentre tentava di far saltare il ponte presso Bettola di Vezzano, si scontrò con l’equipaggio di una macchina tedesca sopraggiunta. Alcuni tedeschi e tre partigiani rimasero uccisi. Il giorno seguente, torme di nemici provenienti da Casina si portarono a Bettola e incendiarono per rappresaglia la locanda, massacrando 32 persone fra cui donne e bambini.
Nel luglio i tedeschi attaccarono con forze schiaccianti tutta la zona libera reggiano-modenese a sud-est del Secchia (la cosiddetta Repubblica di Montefiorino . «Non un volta sola Eros e Miro parlano della “Repubblica di Montefiorino”. Il fatto potrebbe stupire qualcuno: tanto si è parlato di questa Repubblica che parrebbe trattarsi di una imperdonabile dimenticanza. La cosa invece è naturale. La denominazione di “Repubblica di Montefiorino” entrò in uso più tardi; a quanto ci risulta essa non figura in nessun documento dell’epoca» G. Franzini, “RS-Ricerche Storiche, 1967/1, pp. 79-88. ).
Vana fu la tenace resistenza nei punti obbligati di Gatta e Cerredolo. I nemici sfondarono le linee, invasero la zona, distrussero i paesi sul loro passaggio, incendiarono il grano nei campi e compirono angherie ed atrocità uccidendo o deportando in Germania partigiani e civili. Fu un grave colpo per l’organizzazione partigiana e per la popolazione montanara. Le perdite umane furono tuttavia abbastanza lievi e le formazioni reggiane, un mese dopo, raggiunsero la primitiva consistenza.
Nel settembre, in coincidenza con l’offensiva alleata sulla “Linea gotica”, si intensificò notevolmente l’azione partigiana. Le formazioni premevano avvicinandosi alla collina, sabotando le strade, sostenendo scontri a catena, attaccando gli automezzi ecc. Non inferiore era l’attività delle SAP e dei GAP in pianura, che nel frattempo si erano enormemente rafforzati. Essi sabotavano o impedivano il saccheggio del nostro patrimonio zootecnico ed agricolo, spargevano chiodi sulle strade, distruggevano ponti, ferrovie e linee telefoniche, attaccavano colonne, pattuglie, presidi nemici ecc. Riuscirono a disarmare parecchi presidi fascisti come quelli di S. Rocco di Guastalla, Quattro Castella, Codemondo, Campagnola, Praticello, Pratofontana, Masone, Gattatico ecc.
Nell’autunno con il rientro dell’offensiva alleata, i nemici ebbero agio di condurre una serie ininterrotta di rastrellamenti in montagna ed in pianura ove il servizio spionistico aveva ripreso nuovo vigore.
I membri del C.L.N. e del comando Piazza (da cui dipendevano i patrioti della pianura) furono tutti individuati. Alcuni vennero arrestati e torturati e tre di essi, Paolo Davoli, Angelo Zanti e Vittorio Saltini vennero fucilati.
A Villa Sesso, in pochi giorni vennero massacrati 23 tra partigiani e civili. In montagna, a Legoreccio vennero sorpresi, catturati ed uccisi il 17/11/1944 ben 24 garibaldini del Distaccamento “F.lli Cervi”.
Nel gennaio 1945 i tedeschi proposero nuovamente ai partigiani di deporre le armi, minacciando in caso contrario un rastrellamento. La proposta fu respinta ed il 7 gennaio i nemici passarono all’azione. Per quattro giorni infuriarono i combattimenti tra la neve e la tormenta sulle nostre montagne, contro truppe specializzate (tra cui reparti di sciatori e di alpini tedeschi) attaccanti da quattro direzioni. Quindi i partigiani, ammaestrati ormai nella difficile arte della guerriglia, sfuggirono all’accerchiamento filtrando tra le truppe attaccanti.
Pochi giorni dopo essi rioccuparono la zona, riprendendo con rinnovato vigore le loro puntate in pianura.
I nazifascisti, esasperati, sfogavano la loro rabbia massacrando ad ogni azione partigiana, decine di prigionieri: 12 ne uccidevano a Vercallo di Casina, 4 a Fellegara di Scandiano, 10 sul Ponte del Quaresimo (Via Emilia), 4 in via Porta Brennone a Reggio Emilia, 21 presso Villa Cadé, 20 presso Calerno, 10 a Bagnolo in Piano, 8 a Cadelbosco Sopra, 8 a S. Michele di Bagnolo, 5 a Villa Bagno. Altri morivano sotto le torture o fucilati singolarmente dalle “Brigate Nere”, mentre a Ciano d’Enza le truppe tedesche della “Scuola antiribelli” torturavano o uccidevano quasi tutti i partigiani catturati.
Il 15 febbraio sappisti e gappisti effettuarono simultaneamente in tutta la provincia un gigantesco sabotaggio alle linee telegrafiche e telefoniche, abbattendo in una sola notte oltre 1000 pali ed asportando chilometri di filo. Era una impressionante prova della efficienza raggiunta.
Il 27 febbraio, presso Fabbrico, sappisti e gappisti ingaggiarono un grosso combattimento in campo aperto contro numerosi militi delle “Brigate Nere” che intendevano fucilare 22 ostaggi civili. Gli ostaggi, dopo qualche ora di lotta, vennero liberati mentre i fascisti, già decimati, poterono salvarsi a stento solo per l’intervento di truppe tedesche con autoblinde.
Il 27 marzo una colonna di 100 uomini partiti dalla montagna, attaccarono un alto comando tedesco a Botteghe di Albinea. Tale Comando venne pressoché eliminato con conseguenze importanti ai fini strategici.
II 1 aprile notevoli truppe tedesche, dopo essere state tenacemente contrastate dai sappisti della montagna, passarono di notte il Secchia presso Cavola di Toano, incuneandosi entro lo schieramento partigiano fin presso Ca’ Marastoni. Nel pomeriggio però essi vennero posti in fuga precipitosa con perdite notevoli nel corso di un forte contrattacco partigiano.
Il 10 aprile i nemici effettuarono una seconda puntata in direzione di Ligonchio, con lo scopo di distruggere la centrale idroelettrica. Non riuscirono però nell’intento e, dopo tre giorni di duri combattimenti, furono costretti a lasciare la zona inseguiti dai partigiani. La centrale era salva.
Nel frattempo, altri partigiani della montagna cacciarono i tedeschi da Ciano d’Enza occupando definitivamente il paese.
Il 13 aprile ebbe luogo in pianura la “giornata insurrezionale”: una specie di prova generale dell’insurrezione. In molti centri della bassa le donne, guidate dai Gruppi di Difesa ed appoggiate dai partigiani, effettuarono grosse manifestazioni. In Reggio esse chiesero a gran voce la liberazione dei prigionieri politici, mentre alcuni giovani del Fronte della Gioventù penetravano nelle scuole invitando gli studenti a scioperare. In vari paesi i nemici reagirono a fucilate ferendo alcune donne, ma nella maggior parte delle località non osarono uscire dalle loro caserme. I comandanti partigiani in vari luoghi poterono disporre la distribuzione dei generi alimentari degli ammassi e tenere discorsi alla popolazione. Un cruento combattimento ebbe luogo quel giorno in località Ghiardo.
Il 15 aprile un altro combattimento infuriò a Fosdondo. I fascisti stavano per essere sopraffatti quando giunsero a buon punto rinforzi a trarli d’impaccio.
Il giorno 21 le brigate partigiane della montagna, in coincidenza con l’offensiva alleata, bloccarono la strada del Cerreto e due giorni dopo eliminarono tutti i presidi tedeschi. Quindi iniziarono la loro marcia verso la pianura.
Quivi la situazione era caotica. Una fiumana di nemici attraversava in rotta la provincia cercando un varco verso il Po: i combattimenti si contavano a decine.
Uno dei più significativi ebbe luogo il giorno 23 presso S. Rigo di Rivalta. Nel pomeriggio del giorno 24, vinte le ultime resistenze, i partigiani entrarono in Reggio Emilia innalzando negli edifici pubblici il Tricolore della Patria, accolti dall’indescrivibile entusiasmo della popolazione.
Il 25 aprile continuarono i combattimenti che portarono alla cattura di migliaia di prigionieri nemici particolarmente nella bassa. In città, il C.L.N. provinciale prese possesso del Palazzo del Governo, iniziando nella legalità la sua opera di direzione politica.
Ben 626 furono i partigiani reggiani caduti nel corso della lotta.
– di formazioni partigiane reggiane – 511
– di formazioni partigiane di altre province – 80
– di formazioni partigiane all’estero – 35