Già tre giorni erano passati dal folgorante annuncio della caduta di Mussolini e della sua sostituzione con il Maresciallo Pietro Badoglio.
Ben poche persone, a Reggio Emilia come nel resto dell’Italia, avevano prestato la giusta attenzione al messaggio che il vecchio Maresciallo, veterano di tutte le campagne italiane dalla Libia alla Grecia, aveva lanciato all’indomani del suo insediamento come Capo del Governo “…la guerra continua a fianco dell’alleato tedesco… gelosa custode delle sue tradizioni millenarie…”.
L’allora direttore amministrativo delle Reggiane Ferruccio Bellelli, commentando con alcuni suoi dipendenti la nuova situazione politica, consigliò loro di non lasciarsi andare a gesti inconsulti e di fare attenzione, perché i tedeschi e i fascisti rimanevano comunque padroni della situazione e non avrebbero consentito lo scatenarsi di tumulti e manifestazioni.
Convinta che la parte del messaggio che assicurava la continuazione della guerra non fosse che un espediente per poter guadagnare il tempo necessario ad operare lo sganciamento dell’Italia dall’Asse e preparare l’inevitabile armistizio, la popolazione inscenò numerose manifestazioni a favore della pace in tutto il Paese.
Quella mattina migliaia di operai delle Officine Meccaniche Reggiane , si presentarono regolarmente al lavoro nei vari reparti della fabbrica, ma quella non sarebbe stata un giornata regolata dalla ruotine come tutte le altre che l’avevano preceduta. Operai, tecnici, ed impiegati avevano una precisa idea in mente: quella di lasciare lo stabilimento e sfilare per le vie cittadine chiedendo la fine della guerra. Iniziò un piccolo ma risulto gruppo di operai che lasciarono il loro reparto decisi a manifestare nonostante il divieto della direzione e le nuove severissime norme sull’ordine pubblico emanate dal Governo Badoglio che autorizzavano l’esercito e le forze di polizia ad aprire il fuoco senza preavviso contro ogni assembramento di persone superiore alle tre unità. In pochi istanti si sparse per tutta la fabbrica la voce che alcuni operai avevano lasciato le officine e si apprestavano a varcare i cancelli della fabbrica. Ad essi si unirono immediatamente altri dipendenti delle Reggiane ed il piccolo gruppetto iniziale divenne ben presto un una nutrita rappresentanza fino a comprendere forse cinquemila uomini e donne che si presentarono all’uscita inneggiando alla pace e innalzando bandiere tricolori e ritratti di Vittorio Emanuele III.
Le testimonianze di chi era presente all’eccidio non hanno consentito di chiarire definitivamente chi furono i primi ad aprire il fuoco: se le guardie giurate della fabbrica o un plotone di bersaglieri in servizio di ordine pubblico. Chiunque sia stato il primo a sparare contro persone disarmate e pacifiche non cambia certo il risultato di quella tragica sparatoria che è tristemente noto: nove operai, fra i quali una donna incinta, rimasero uccisi (Antonio Artioli, Vincenzo Bellocchi, Eugenio Fava, Nello Ferretti, Armando Grisendi, Gino Menozzi, Osvaldo Notari, Domenica Secchi e Angelo Tanzi) e decine di altri riportarono ferite da arma da fuoco o lesioni causate dal panico delle persone che cercavano disperatamente un riparo dai proiettili. I feriti trovarono un primo parziale ricovero nell’infermeria delle Reggiane.
I bersaglieri e le guardie giurate delle O.M.I. eseguirono zelantemente l’ordine emanato dal generale Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il 26 luglio: “ … qualunque perturbamento dell’ordine pubblico anche minimo e di qualsiasi tinta costituisce tradimento; poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue [versati in seguito]; i reparti… procedano in formazione da combattimento e si apra il fuoco a distanza anche con mortai ed artiglierie senza preavvisi di sorta, come procedessero contro truppe nemiche; non è ammesso il tiro in aria, si tiri sempre a colpire come in combattimento… chiunque compia atti di violenza e di ribellione … venga immediatamente passato per le armi”.
Secondo quanto racconta Sergio Malinverni, uno dei bersaglieri presenti quel giorno alle Reggiane, il tenente che comandava il reparto perse il controllo della situazione quando udì alcuni colpi di pistola provenire dall’interno dello stabilimento (le guardie private?) e, forse temendo di essere attaccato dai “ribelli”, ordinò il fuoco. I militari, disobbedendo alle disposizioni di Roatta, spararono una prima raffica in aria, ma l’ufficiale, evidentemente non pago di quell’inequivocabile avvertimento, puntò personalmente una mitragliatrice verso i manifestanti e ordinò nuovamente il fuoco.
Quando in città si sparse la notizia della strage vi furono alcune manifestazioni e scioperi spontanei di protesta, in particolare alla Lombardini. Anche nelle fabbriche di Modena vi furono degli scioperi spontanei: alle Vinacce, alla FIAT Motori, all’OCI-FIAT e all’Orlandi. Gli operai stessi delle O.M.I. tornarono a scioperare il giorno successivo l’eccidio.
E’ doveroso ricordare che quello stesso 28 luglio 1943 l’esercito compì un’altra strage di civili a Bari: ventitré morti ed oltre sessanta feriti fra studenti, insegnati ed operai che chiedevano la liberazione dei detenuti politici.
In origine posta all’ingresso delle Officine, nel luogo ove avvenne l’eccidio, e oggi visibile sul lato nord del Tecnopolo, una lapide ricorda gli operai uccisi quel lontano 28 luglio 1943:
Artioli Antonio
Bellocchi Vincenzo
Fava Eugenio
Ferretti Nello
Grisendi Armando
Menozzi Gino
Notari Osvaldo
Secchi Domenica.
Nel sito internet di Istoreco sono disponibili diverse fotografie e una breve introduzione e una bibliografia sugli eventi dell’estate 1943 a Reggio Emilia.
Il racconto della piccola grande storia di Domenica Secchi, una delle nove persone uccise il 28 luglio 1943 alle Officine Reggiane durante le manifestazioni contro la guerra.
una produzione COMUNE DI REGGIO EMILIA – ISTORECO – CENTRO TERRITORIALE PERMANENTE
progetto condotto da ANNALISA GOVI, MATTHIAS DURCHFELD. regia ALESSANDRO SCILLITANI