Eccidio sette fratelli Cervi
I Cervi erano arrivati al podere di Praticello di Gattatico alla ricerca di un terreno pieno di gobbe e di buche da livellare per renderlo coltivabile, attraverso le conoscenze acquisite grazie alla “Riforma sociale” di Luigi Einaudi ed alle tante ore trascorse sui libri, nelle pause del lavoro, per imparare le moderne tecniche dell’agricoltura. Avevano le mucche, allevavano piccioni e le api che producevano un finissimo miele. Avevano comperato il primo trattore della zona ed inoltre avevano piantato per la prima volta in Emilia, l’uva americana. Tutto questo suscitò molte gelosie nel paese, ma soprattutto l’attenzione delle autorità fasciste.
I Cervi erano sempre stati antifascisti, così come il padre Alcide e la madre Genoeffa Cocconi, donna di profonda fede cattolica; ma fu soprattutto Aldo ad infondere a tutta la famiglia le prime nozioni politiche e quindi un naturalissimo e convinto antifascismo. Con il trascorrere del tempo, divennero sempre più stretti i contatti con il movimento antifascista, così che, già dall’inizio della guerra, la loro casa divenne un rifugio per i prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia. Era tra loro il russo Anatolij Tarasov, successivamente fidato compagno dei sette fratelli ed attivissimo partigiano nella Resistenza. Sfiduciato il Duce dai suoi stessi gerarchi, cadde il fascismo il 25 luglio 1943 e la famiglia Cervi organizzò una grande festa, offrendo la famosa pastasciuttata a tutta la popolazione sull’aia della casa. Nelle pentole vennero cotti dieci quintali di pasta e ai Campi rossi giunsero a mangiare i vicini, i parenti, gli amici, i paesani. La popolarità dei Cervi aveva ormai superato i confini di Gattatico e con l’arrivo dei nazisti in Emilia, la loro cantina ed il loro fienile divennero depositi per le armi dei partigiani che andavano in montagna. Anche loro, seppur per un brevissimo periodo, provarono la via dei monti, dove ebbero contatti con il parroco di Tapignola Don Pasquino Borghi, ma capirono ben presto che la Resistenza in montagna non era ancora sufficientemente organizzata. Così tornarono ai Campi rossi, poiché ritennero fosse più importante rimanere in pianura e mantenere i collegamenti con i primi nuclei partigiani che via via andavano formandosi, nascondendo le armi e diffondendo la stampa clandestina. I fascisti non tardarono però a stroncare l’intensa attività cospirativa dei Cervi, infatti all’alba del 25 novembre 1943, un plotone di militi circondò l’edificio, in parte incendiandolo ed al termine della sparatoria i sette fratelli, dopo essersi arresi, vennero catturati e condotti al carcere politico dei Servi a Reggio Emilia. Stessa sorte toccò al padre Alcide che non volle abbandonarli, al compagno partigiano Quarto Camurri e ad alcuni ex prigionieri alleati, tra i quali Dante Castellucci che si fece passare per francese. Alla fine la casa della famiglia venne completamente bruciata dai fascisti, con le donne ed i bambini abbandonati in strada.
Papà Cervi era ancora in cella e non fu nemmeno informato quando i suoi figli vennero condannati a morte e fucilati al poligono di tiro di Reggio, alle ore 6,30 del 28 dicembre 1943.
“Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti”. Queste le parole del vecchio “Cide” quando, tornato a casa dal carcere, seppe dalla moglie Genoeffa la tragica fine dei suoi ragazzi. Da quel giorno infatti, furono le donne dei Cervi a lavorare la terra con Alcide e con gli 11 nipoti. Nell’immediato dopoguerra, il Presidente della Repubblica appuntò sul petto del vecchio padre sette Medaglie d’Argento, simbolo del sacrificio dei suoi figli.
Papà Cervi viaggiò in mezzo mondo, rappresentando la Resistenza italiana, partecipando alle grandi manifestazioni politiche, partigiane ed antifasciste. Morì a 94 anni il 27 marzo 1970, salutato ai suoi funerali da oltre 200.000 persone.
La casa del Cervi è oggi uno straordinario museo della storia dell’agricoltura, dell’antifascismo e della Resistenza.