1945 – Febbraio 14 – Rappresaglia Bagnolo in Piano
Il pretesto fu quello di vendicare la uccisione, avvenuta in circostanze non chiare, di due soldati dell’esercito fascista presso Pieve Rossa. Certo è che i Comandi non fecero nessuna indagine per appurare la responsabilità del fatto. L’essenziale per loro era non la giustizia; essenziale era lasciare, subito dopo un fatto, dei morti per le strade affinché si sapesse che il governo di salò aveva il “pugno duro”.
Bisognava dare una “una lezione” alla popolazione che essi sapevano ostile, come se con quei mezzi fosse stato possibile mutare i sentimenti antifascisti ormai largamente diffusi nel Reggiano.
La rappresaglia di Bagnolo presenta tutte le caratteristiche di una azione condotta anche e forse soprattutto allo scopo di liberarsi, sopprimendoli, degli avversari politici del luogo, presunti o reali che fossero.
Il compito, particolarmente ingrato, fu affidato alla “Brigata Nera”, richiedendo esso assenza totale di scrupoli e di sentimenti di umanità.
Nelle prime ore del 14 febbraio reparti di squadristi autotrasportanti piombavano in Bagnolo ancora immerso nel sonno. Quivi giunti gli sgherri, muniti di apposite liste iniziavano il rastrellamento casa per casa allo scopo di arrestare le persone designate. Qualcuno, accortosi del rastrellamento, riuscì a sottrarsi alla cattura nascondendosi, ma i più vennero colti alla sprovvista e arrestati, i prigionieri vennero portati nel “fortino” (così la popolazione chiamava la caserma perché appunto era fortificata). Quivi gli infelici venivano trattenuti per varie ore tra tutto un andirivieni di armati, di ceffi in preda ad una animosità che non prometteva nulla di buono.
Verso le ore 9 gli sgherri conducevano in piazza, e precisamente ai piedi del torrazzo, ove attualmente c’è la lapide che li ricorda, dieci cittadini: alcuni giovani, altri, i più, padri di famiglia e vecchi.
Ecco i loro nomi:
- Malaguti Primo di anni 67
- Gibertoni Oreste di anni 25
- Gibertoni Otello di anni 33
- Carboni Aristide di anni 41
- Formentini Carlo di anni 54
- Storchi Arnaldo di anni 54
- Tondelli Imerio di anni 37
- Mattioli Emilio di anni 26
- Tedeschi Licinio di anni 54
- Lazzaretti Evres di anni 30
Nato a Bagnolo in Piano nel 1915, Evres Lazzaretti Ottaviano apparteneva all’organizzazione clandestina del PCI, nel 1937 fu condannato dal Tribunale speciale a 5 anni di confino. Organizzatore dei gruppi armati dopo l’8 settembre, fu egli stesso gappista (poi 37a GAP “Vittorio Saltini”) in pianura. Venne catturato dalla Brigata nera il 14 febbraio 1945 e fucilato. Gli è stata conferita la medaglia d’argento al valor militare alla memoria.
Quivi vennero posti di fronte al plotone di esecuzione e poco dopo uccisi dalle scariche delle armi da fuoco, mentre rombavano i motori già avviati dagli automezzi.
I fascisti salivano poi rapidamente sui camion e si allontanavano cantando spavaldamente le loro canzoni, fieri evidentemente dell’eroica impresa compiuta.
Ai piedi del torrazzo giacevano dieci corpi inanimati. Su di essi i fascisti avevano lasciato un cartello: uccisi perché traditori e uccisori dei nostri soldati.
L’inutile massacro gettò il paese nel lutto ed apparve a tutti come un assassinio pazzesco.
Questa volta la stampa fascista non sorrise un rigo, non esaltò la rappresaglia come usava fare, evidentemente consapevole dell’effetto negativo che ciò avrebbe prodotto.
Persino i tedeschi, che pure erano dei professionisti delle stragi, deplorarono il fatto. Il Plazkommandantur comunicò testualmente al prefetto repubblichino:
“Sette dei fucilati hanno lasciato la famiglia in povere circostanze (…). Il Comando Kuruek 514 chiede alla Prefettura e alla Federazione di dare sussidi a tali buone famiglie bisognose, siccome l’esecuzione era un’azione sbagliata”.
Quali che fossero le regioni di questo contrasto interno tra fascisti e tedeschi appare non chiaro, guardando ai fatti, dato che gli uni e gli altri si equivalevano in quanto ad eccidi. Infatti lo stesso giorno 14, mentre i fascisti uccidevano dieci persone a Bagnolo. I tedeschi ne uccidevano venti a Calerno. Gli uni e gli altri pertanto, venivano accumunati nella condanna popolare.