Nell’inverno tra il 1944 e il 1945 la Resistenza reggiana era in una situazione particolarmente difficile. Col rientro dell’offensiva anglo-americana sulla “Linea Gotica” (settembre-ottobre 1944) tutte le forze nazifasciste potevano essere impiegate tranquillamente contro le formazioni partigiane che si erano dimostrate molto attive. Ai rastrellamenti a catena organizzati in montagna tra l’ottobre e il novembre (che costarono perdite durissime alle formazioni) si aggiungeva l’intensissima opera poliziesca in pianura.
Tra il novembre e il dicembre venivano scoperti, arrestati e torturati alcuni dei massimi dirigenti provinciali del movimento (comando Piazza e C.L.N. Provinciale). Altri vennero uccisi (Zanti, Sabatini, Davoli).
Interi settori del movimento sappista venivano scoperti ed eliminati, specie attorno alla città di Reggio, con arresti e fucilazioni (23 fucilati nel dicembre a Sesso). I nemici erano convinti che la cattiva gestione e il messaggio di Alexander-equivalente a un invito alla smobilitazioni-avrebbero determinato il crollo completo dell’organizzazione partigiana.
Viceversa, vinte le difficoltà maggiori con l’aiuto concreto della popolazione (settimana del partigiano ed altre sottoscrizioni) e superate le tendenze attesiste, le formazioni della montagna dal dicembre in poi passavano ad una fase vivace offensiva, interi distaccamenti, nonostante l’alta neve, si portavano a rotazione in pianura sabotando ponti e ferrovie ed attaccando, in collaborazione coi sappisti e gappisti, il traffico militare nemico sulle vie di comunicazione e particolarmente sulla Via Emilia che era la più importante arteria del retrofronte.
I tedeschi e i fascisti, fortemente preoccupati per questo inaspettato risveglio di attività “ribellistica”, credettero di poter contenere l’aggressività delle formazioni partigiane accentuando le rappresaglie, uccidendo cioè nei luoghi degli scontri persone per lo più prelevate dalle carceri ove erano rinchiuse come ostaggi o come “ribelli”. Così vennero uccisi al Ponte Quaresimo, il 21 gennaio dieci patrioti; così il 9 febbraio vennero uccisi ventun patrioti a Villa Cadè; così il 14 febbraio vennero uccisi venti patrioti a Calerno e dieci a Bagnolo in Piano.
Ma queste stragi, anche se dolorose non potevano paralizzare la lotta armata popolare. La posta era troppo importante. Colpire i nemici sulle vie di comunicazione significativa gettare il panico nelle loro file, costringendo contemporaneamente i comandi ad impegnare sempre nuove forze per la sorveglianza. D’altra parte occorreva tener conto dei sacrifici sanguinari di vite umane che l’azione comportava?
Così i comandi i Comandi partigiani diedero disposizione di intensificate la guerriglia, predisponendo però, ove era possibile, la contro-rappresaglia, intensa come azione atta a prevenire gli eccidi di gente inerme da parte dei nemici. Queste direttive normalmente, presupponevano una efficienza considerevole delle formazioni, dei loro comandi e dei servizi di collegamento.
L’episodio di Fabbrico fu l’esempio più riuscito di contro-rappresaglia e cioè dell’introduzione di un elemento nuovo ed importante nella tattica partigiana.
I fatti di Fabbrico
La popolazione di questo centro della “bassa” reggiana, era pienamente solidale coi partigiani (aiuti materiali, case di latitanza nelle campagne, informazioni ecc.).
Il giorno 26 febbraio, verso le 15.30, una decina di fascisti della “Brigata Nera” di Novellara entravano in paese, piazzavano un fucile mitragliatore al centro dell’abitato, fermavano i passanti facendosi mostrare i documenti e chiedendo loro minacciosamente dove erano i partigiani. Sulla via del ritorno, il camioncino su cui costoro viaggiavano venne attaccato da una squadra di Partigiani. Durante la sparatoria che subito si accese, venne intercettata una motocicletta di porta-ordini tedeschi. Perirono nello scontro 2 tedeschi e 5 fascisti, mentre l’automezzo venne distrutto e la moto recuperata dai partigiani assieme ad un mitragliatore cinque moschetti. Nessuna perdita si ebbe da parte dei patrioti.
Il giorno seguente un forte contingente fascista scendeva nuovamente in Fabbrico. I militari fermarono gran parte della popolazione ammassandola in crocevia. Successivamente, dalla massa dei fermati, vennero appartati 22 uomini mentre gli altri furono messi in libertà. Gli ostaggi vennero messi al muro e costretti a rimanere varie ore sotto la minaccia delle armi puntate. Non esisteva ormai nessun dubbio sulle intenzioni dei fascisti di effettuare contro i civili l’ennesima rappresaglia. Nel frattempo alcuni collaboratori dei partigiani portavano la notizia ai Comandi delle formazioni che si trovavano nelle campagne. I Comandi decisero immediatamente di portarsi alla periferia di Fabbrico; intanto provvidero a chiedere a mezzo staffette l’intervento di vari distaccamenti dei Comuni vicini.
Verso le ore 14 i fascisti, frammisti agli ostaggi, uscirono dal paese avviandosi sul luogo dello scontro del giorno precedente. Quivi infatti doveva avvenire la fucilazione dei civili. Se non, che a poca distanza, sulla strada, stavano ad attenderli circa 150 uomini appostati in armi. Nonostante il terreno scoperto e la preoccupazione di colpire i civili, i partigiani ingaggiarono un combattimento. La sparatoria durò a lungo. I primi morti rimanevano sul terreno. I fascisti vennero battuti in campo aperto dopo aver subito dure perdite. Parte di essi ripararono allora all’interno di un grande casolare vicino i cui abitanti furono da essi usati come scudo contro gli assalitori. (I partigiani invece non si potevano riparare nelle case temendo che esse venissero poi distrutte per rappresaglia dai nemici).
Venne bersagliata anche una vettura tedesca sopraggiunta durante il combattimento. Gli ostaggi, approfittando della confusione determinatasi in campo nemico, poterono mettersi in salvo, raggiungere il paese e portare la notizia della vittoria partigiana tra la popolazione che attendeva ansiosamente di sapere che cosa stava avvenendo. La gioia dei fabbricesi fu indescrivibile.
Verso l’imbrunire i partigiani già stavano abbandonando il campo di battaglia rinunciando a spingere a fondo l’attacco alla casa per non mettere a repentaglio la vita dei civili. Portavano con loro il ricco bottino recuperato. Sul luogo dello scontro, tardivamente ormai, fecero loro comparsa alcune autoblinde tedesche. Solo in questo modo i fascisti superstiti, uscirono dal loro riparo.
Nel fatto d’arme perirono i partigiani:
Leo Morellini
Piero Foroni
Luigi Bosatelli
Perì anche il civile Corgini Genesio, uno degli ostaggi.
Secondo una relazione del tempo, redatta dal Comando partigiano, i fascisti riportarono le perdite di una trentina di morti e di circa altrettanti feriti. Venne recuperato il seguente materiale: 1 pistola “machine” e 12 moschetti. Furono inoltre distrutti 2 autocarri e 3 vetture.
Il 27 febbraio venne dimostrato efficacemente e chiaramente che le formazioni partigiane della pianura erano ormai in grado di competere con le assai meglio armate ed equipaggiate truppe fasciste, operando per di più in una zona presidiata dal nemico, quale era quella della via Emilia a Po.
Per questo eccezionale fatto d’arme, ma anche per l’atteggiamento fieramente patriottico ed antifascista della popolazione durante l’intero periodo della lotta, il gonfalone del Comune di Fabbrico, il 27 febbraio del 1954 veniva ufficialmente decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare con la seguente motivazione:
Dopo l’armistizio e durante l’occupazione tedesca, la popolazione di Fabbrico, unanime nella resistenza, solidale con le formazioni partigiane, costante nelle dure rappresaglie, dava bella prova di devozione alla patria ed agli ideali di libertà.
Fabbrico (Reggio Emilia Settembre 1943-Aprile 1945) .