Il partigiano Settimo
Era la primavera del 1943 e l’Italia era allo stremo. La lunga guerra aveva fiaccato gli animi e i corpi e il regime fascista, sempre meno popolare, iniziava a vacillare. In marzo alcuni clamorosi scioperi, i primi dall’avvento del fascismo e gli unici nell’Europa occupata, avevano scosso tutte le principali città del Nord.
A Milano, Genova, Bologna, Reggio Emilia iniziavano ad organizzarsi le bande di volontari che per due lunghi e logoranti anni avrebbero combattuto contro i «briganti neri». A Luzzara, l’antica torre campanaria assisteva, benedicendola, alla nascita dei nuclei partigiani che avrebbero riscattato il paese. Noi ragazzi di quindici-sedici anni, privati della nostra adolescenza, figli del Po e della Pianura, ci sentivamo prima di tutto figli di antifascisti: nelle vene degli Avanzi, degli Scaini, dei Dalai, dei Tagliavini, dei Filippini, dei Bonaretti scorreva sangue democratico e liberale.
Man mano che la primavera avanzava, io che fino ad allora mi ero sempre astenuto, titubante com’ero, ad avventurarmi nei meandri della politica iniziai, non ricordo bene perché, a frequentare Arnoldo Avanzi. Come avrei capito solo a guerra finita, piangendo sulla sua tomba, Arnoldo mi conquistò col carisma la personalità e la grande sensibilità con cui era riuscito a risvegliare il mio spirito democratico ed egalitario dal lungo letargo dittatoriale in cui si era assopito. Una sera di fine primavera, nel pioppeto della golena del fiume, Arnoldo propose a me e ad alcuni miei coetanei di costituire, insieme a lui e ad altri luzzaresi, un nucleo di partigiani.
Istintivamente, con il sangue che mi ribolliva nelle vene e la mente che vagava nei vividi ricordi di quella misera infanzia strappatami via dall’uomo nero, accettai di buon grado la sua proposta. Arnoldo, compiaciuto, mi consegnò una tessera mangiucchiata dal tempo, dicendomi che di lì a poco ci saremmo messi a fare sul serio.
Osservai ammirato la tessera che serravo in pugno. Non era un distintivo da partigiano, ma di antifascista, poiché il neonato movimento resistenziale non si era ancora dato una gerarchia e una struttura interna, cosa che sarebbe avvenuta solo nel 1944 con la costituzione del CLN e del CLNAI.
Giunto a casa, mostrai orgoglioso la tessera a mio padre. Quel minuscolo e ingiallito rettangolo di carta, pensavo, mi avrebbe fatto uomo. lo che fino ad allora ero stato solo un ragazzetto ingenuo, avevo la possibilità di mostrarmi, agli occhi di mio padre, tanto cresciuto da essere pronto a rischiare la vita per qualcosa di tanto grande quanto intangibile come solo un ideale sa essere.
Solo allora, quando nel mostrargli la tessera ricevetti in cambio un sorriso di approvazione, venni a sapere che anche lui, da quattro mesi, ne possedeva una identica. Non mi sbagliavo: quel pezzo di carta e quell’ideale, quella parola: «Antifascista», scritta con inchiostro nero, mi avevano fatto diventare grande.
Quella sera, per la prima volta, captai la fragranza di antifascismo che aleggiava in casa mia. Riuscii a rendermi conto che la miseria nera in cui vivevamo e del perché mio padre, anni addietro, quando lo Stato aveva abbandonato la popolazione nella miseria e nella disoccupazione per intraprendere la Campagna di Grecia, aveva gettato la bandiera italiana nel gabinetto.
Mio padre amava la sua patria. Amava l’Italia e il tricolore. Ma detestava lo stemma sabaudo che campeggiava sulla bandiera e ancora di più odiava le scuri littorie che ne insozzavano il candore. Quella sera esplose nelle mie viscere l’odio antico, vecchio di generazioni, verso l’arroganza di quei benestanti che, alteri, guardavano con sufficienza noi poveri e si illudevano che il loro Duce li avrebbe condotti verso un futuro radioso.
Per la prima volta, realizzai il motivo di tutte le privazioni, di tutti i dolori che avevo dovuto sopportare fin dalla mia infanzia. Di colpo capii perché a scuola, d’inverno, mentre gli altri avevano la divisa di lana da balilla e stavano al caldo, io pativo il freddo. Mi resi conto del perché d’estate, sulle rive del Po, quando la colonia dei Figli d’Italia distribuiva panini al latte farciti con burro e marmellata, io mangiavo pane raffermo.
Tutto per una tessera che mio padre non aveva voluto prendere, quando il capofascista gliel’aveva imposta. E mentre pensavo all’ingiustizia, insopportabile per un quindicenne, di dover rincasare alle cinque del pomeriggio per il coprifuoco, capii il senso profondo dell’unica, biliosa risposta che mio padre dava a tutti i miei interrogativi: «Perché quelli che comandano vogliono così». Mi resi conto che quella parola: «Antifascista», ancor prima di capitarmi tra le mani su quella tessera, mi aveva silenziosamente accompagnato dal giorno della nascita, marchiandomi a fuoco vivo il cuore. Ed era proprio il cuore, livido per quella vecchia ustione, che quella sera pompava nelle mie vene il sangue rosso e vitale della Resistenza, della guerra alla guerra, del patriottismo, della fratellanza internazionale, del coraggio e dell’amore per la terra e la famiglia.
Avrei combattuto per un ideale: ero talmente disposto a farlo che quando Arnoldo mi avrebbe chiamato, avrei combattuto anche contro la morte e se non l’avessi sconfitta, sarei comunque caduto da uomo libero. E quando un uomo muore libero, ha poca importanza morire. Di lì a pochi mesi, la promessa di Arnoldo divenne cruda realtà.
Una sera, io e sette compagni ci vedemmo convocati nel bosco della Golena di Po. Pensammo a una delle riunioni segrete che da alcuni mesi riempivano le nostre serate, facendoci scordare il coprifuoco delle cinque. Quella volta però, lo scenario che si spalancò davanti ai nostri occhi era totalmente diverso. C’era molta più gente e il luogo del ritrovo era silenzioso: quasi pervaso da una sorta di austera e mistica solennità.
Adolfo Tedeschi, Bonaretti, Dalai, Ferrari, Avanzi e tutti gli altri non ci accolsero con la solita goliardia e notammo un qualcosa di misterioso e insondabile negli sguardi. Il sole rosso del tramonto, incontrando i loro occhi consumati dall’ansia, faceva baluginare di tanto in tanto riverberi di eccitata trepidazione. Il vento della sera increspava le fronde dei pioppi.
Arnoldo si mostrò il più risoluto e il più temerario nell’annunciare che avevamo atteso fin troppo a lungo e che era giunto il momento di scendere in azione. Lui ed Ermes Ferrari, che da qualche mese avevano allacciato contatti coi partigiani della montagna e sapevano cosa stava accadendo nel resto d’Italia, spiegarono a noi reclute che diventare partigiani avrebbe significato esporsi giornalmente al pericolo e che si sarebbe dovuto prestare molta attenzione, in ogni momento.
Ci dissero che forse qualcuno di noi non avrebbe visto il giorno in cui avremmo scacciato i fascisti, che alcuni compagni avrebbero lasciato le carni straziate nelle città date al nemico; ci avvertirono che la Brigata Nera non avrebbe avuto pietà di noi.
Esortarono chi non se la sentiva ad abbandonare e fortificarono lo spirito di chi era pronto a immolarsi per la libertà. Quella sera nascemmo una seconda volta e una seconda volta fummo battezzati: non nella fede cattolica ma in quella dell’Ideale Partigiano.
Da quel momento mi sarei distinto sul campo di battaglia col nome di Settimo. In quel bosco, quella sera, nacque la Resistenza luzzarese. Dei ragazzi che strinsero un patto di sangue lungo la riva del Grande Fiume, sette furono fucilati a Reggiolo;due vennero impiccati a Casoni; Tedeschi trovò la morte al fortino di Sparavalle, sulle montagne di Reggio e altri sette caddero in battaglia: tra i partigiani combattenti soltanto io e pochi altri avremmo visto la fulgida luce del 25 aprile.
Pochi giorni dopo la sera dell’investitura, ancora impacciati dal doverci chiamare con i nomi di battaglia, venne ufficializzata la nostra appartenenza al movimento partigiano e fummo quasi tutti arruolati nella Settantasettesima Brigata SAP, poi ribattezzata «Fratelli Manfredi» in memoria dei quattro ragazzi reggiani fucilati dai fascisti insieme al padre.
Tuttavia, poiché a Luzzara non esisteva una vera e propria organizzazione paramilitare, più che prender parte ad azioni di guerriglia armata ci limitammo ad azioni di supporto verso quella parte di popolazione – contadini, mezzadri e fittavoli – solidale con noi e con i nostri ideali. Nella mia prima azione marciai nottetempo verso la borgata di Vergari, insieme a Erminio.
Là avremmo dovuto assaltare la fattoria di un ricco latifondista e ammazzare il maggior numero possibile di maiali, con i quali sfamare le famiglie più bisognose. Poche settimane dopo razziammo anche il caseificio di un benestante luzzarese che si diceva essere amico dei fascisti: rubammo cinque forme di formaggio e molti sacchi di sale e, nei giorni a venire, li distribuimmo ai compaesani affamati.
Le nostre azioni poi, erano anche mirate a intimorire quel pochi fascisti che ancora si ostinavano nell’ esaltare l’operato del loro Duce. Una notte d’inverno, una banda di partigiani fece irruzione nella stazione ferroviaria per dissuadere il capostazione del paese dal continuare il suo lavoro di propaganda, intimorendolo.
Nella stazione, i partigiani trovarono una macchina da scrivere e Davide Bonaretti la confiscò per portarla a Erminio Filippini, affinché la utilizzasse per la stampa clandestina. Quella stessa sera inoltre, io e altri compagni entrammo in un macello, dove ci impadronimmo di alcuni quintali di carne da distribuire ai poveri.
Che strano partigiano ero. Combattevo la mia guerra contro la fame e la miseria armeggiando con maiali e formaggi e quando il povero Adolfo sarebbe caduto, mesi dopo, sui monti di Reggio in un impeto di odio e di ardore per la grande riscossa, avrei solo potuto immaginare la cruenta battaglia che lacerò il cuore suo e dei suoi compagni. Ma i ribelli della montagna, per combattere, avevano bisogno di munizioni e di artiglieria. La Bassa reggiana era stata convertita dai nazifascisti a gigantesco deposito di armi: noi partigiani di pianura eravamo incaricati di trafugare i preziosi armamenti e di spedirli sui monti.
Noi luzzaresi in particolare, ospitando in paese l’ospedale militare, ci limitavamo principalmente a spogliare delle armi i tedeschi feriti reduci dal fronte e a custodire l’artiglieria confiscata nella cantina di Giulio Artoni finché non arrivavano i furgoni dalle montagne. Spesso però le munizioni non bastavano ed eravamo costretti a rischiare in prima persona, assaltando plotoni fascisti o depositi abbandonati. Una notte di fine inverno venne ordinato a me, Adolfo e altri sette di impossessarci delle munizioni stipate in una polveriera che si trovava nel reggiolese. Quella sera ci avrebbero scortato i partigiani di Reggiolo, quasi tutti militanti della Democrazia Cristiana, che conoscendo il territorio, avrebbero potuto coprirci meglio le spalle.
Accadde così che in una fredda notte di febbraio del 1944 un manipolo di comunisti si ritrovò a marciare fianco a fianco con le Fiamme Verdi democristiane, dando vita a una rusticana anticipazione del compromesso storico. La gravità del momento e l’impellente necessità di salvare l’Italia dal delirio fascista mettevano in secondo piano le ragioni ideologiche: vent’ anni di aspra contrapposizione erano andati in soffitta. Non c’erano più comunisti né cattolici: restavano soltanto il bene da una parte e il male dall’altra. E noi combattevamo uniti per il bene dell’Italia.
Il terreno sconnesso e la luna oscurata da nubi minacciose rendevano traballante il cammino di Adolfo che inciampava in continuazione, imprecando. L’avanguardia della DC allora, si voltò e puntò la mitraglia fissa su di lui: «Se non la smette» sbraitò «facciamo fuoco». Guardai Adolfo, incerto. «Lascia stare» scherzò «sono democristiani, loro: Dio marcia al loro fianco e non si può insultare un commilitone! » Quando giungemmo al deposito di munizioni, un ragazzino alla sua prima uscita pensò che sarebbe stato utile avere un po’ di luce per poter mettere da parte le mine anticarro e riempire i nostri borsoni con le munizioni. Così accese un fiammifero, rischiando di generare una detonazione a catena. Avio, il Comandante di Fabbrico che poi sarebbe divenuto Capo della Polizia Partigiana a Luzzara, gli puntò una Beretta sotto la gola: «Fallo un’ altra volta» disse «e non ci sarà bisogno dei fascisti per ammazzarti!»
L’inesperienza e l’avventatezza che quella sera obnubilava la mente di quel tredicenne sarebbe stata la stessa che, mesi dopo, avrebbe posto fine al mio partigianato a Luzzara. Durante gli ultimi mesi del 1944, la mia famiglia aveva la fortuna di poter contare sul salario che mio padre, impiegato nei lavori per la costruzione dell’argine maestro, portava a casa mensilmente. In casa mia quindi il cibo non mancava.
Così non era invece per Adolfo e Giulio «il marinaio», che spesso venivano a cenare da me. Una sera, probabilmente grazie a una soffiata, alcuni camerati riconobbero Giulio che entrava dall’uscio e, dopo aver fatto irruzione, ci trascinarono tutti e tre in caserma. Durante l’interrogatorio notai sulla scrivania del gerarca una lista che conteneva i nominativi di tutti i luzzaresi sospettati di sovversione: su quella lista lessi, come in un triste presagio, i sette nomi di chi, di lì a pochi mesi, sarebbe stato fucilato a Reggiolo. Terminato l’interrogatorio, il comandante della Brigata Nera e un camerata che infieriva sui nostri corpi, ci accusarono di far parte delle bande partigiane luzzaresi. Negai. Dopotutto avevo solo sedici-diciassette anni e non ero ancora stato a militare: come potevo anche solo saper maneggiare un’arma?
Il giorno dopo mi rilasciarono. Corsi ad avvisare i compagni del pericolo che correvano restando in paese: dissi loro che i fascisti sapevano e che, per quel che mi riguardava, sarei fuggito nel parmense, dove avrei trovato ospitalità presso alcuni amici. Quindi partii in bicicletta per Parma, da dove sarei ritornato solo il 27 aprile del 1945, a Liberazione avvenuta. Giulio invece si aggregò al contingente che quella stessa notte partiva per l’Appennino.
Per i ragazzi che restarono a Luzzara, forse troppo fiduciosi, forse troppo temerari, non ci fu scampo. I loro nomi erano sulla bocca di tutti: ogni luzzarese sapeva chi erano i partigiani del paese. E dopotutto, da parte nostra, non c’era mai stato il minimo tentativo di celare la nostra identità. Eravamo ancora dei ragazzi: agivamo senza pensare, non concepivamo l’idea di poter rischiare veramente la vita, né ci curavamo degli occhi indiscreti che ci scrutavano quando uscivamo per strada.
Ricordo che una mattina, ancora prima di ricevere i nostri nomi di battaglia, Adolfo bussò alla porta di casa mia dicendomi di seguirlo nel bosco perché doveva provare una pistola nuova. Nel pioppeto che giorni dopo ci avrebbe visto giurare vendetta per i nostri morti, la pistola esplose diversi colpi sotto gli occhi terrorizzati di due donne che andavano per legna. Inoltre a Luzzara nessuno poteva sapere se gli altri erano amici o nemici.
Ricordo che un giorno entrai in un caffè. Era il periodo in cui agli antifascisti venivano serviti olio di ricino e bastonate. Mi sedetti vicino a un tavolo da biliardo guardando come si sviluppava il gioco. Senza sapere bene il perché, sollevai lo sguardo e vidi che sopra la mia testa, quasi fosse destino, gravava una gigantografia del Duce, sguardo arcigno e pugni sui fianchi. Improvvisamente, senza che lo sfiorassi, il quadro cadde fragorosamente a terra, sfasciandosi. Ricevetti tante pedate nel sedere quanti erano i metri che, sulla via del ritorno, dividevano il caffè da casa mia. E l’esecutore del supplizio fu quello stesso ragazzo con cui, prima della guerra, passavo le mie giornate spensierate lungo il Po.
Quando ritornai a Luzzara, il 27 aprile, la guerra era finita e i «briganti neri» non infestavano più le nostre campagne. Allora seppi che i primi luzzaresi a essere catturati furono Marzio Fornasari, Erminio e Franco Filippini, sorpresi da un plotone distaccato della Decima MAS. Fornasari riuscì a scampare al plotone d’esecuzione; Erminio Filippini fu internato a Bolzano, mentre il fratello Franco venne fucilato a Guastalla in piazza Mazzini: fu lui il primo martire di Luzzara.
Seppi inoltre che nel rastrellamento di Luzzara settanta uomini furono arrestati. Condotti a Reggiolo a piedi, correndo per dodici chilometri, sessanta furono poi trasferiti a Reggio Emilia, mentre dieci vennero sottoposti a torture indicibili nei due giorni a venire. All’alba del 14 Aprile, presso il cimitero di Reggiolo, i miei compagni sappisti vennero brutalmente fucilati e poi finiti con una bomba a mano dai fascisti in ritirata.
Ripensai allora alle parole di Arnoldo, quel giorno, nel pioppeto: «Qualcuno di noi non vedrà il giorno in cui scacceremo i fascisti. Alcuni nostri compagni lasceranno le carni straziate nelle città date al nemico» e piansi la morte sua e di Walter, Enzo, Balilla, Federico, Claudio, Lino, Celestino, Franco, Fausto, Ermes, Selvino, Luigi, Rino, Attilio, Mario e Adolfo. I caldi raggi del nuovo sole d’aprile ridestavano una Luzzara colma di Volontari della Libertà, mentre le truppe alleate si affrettavano a completare la Liberazione nazionale.
In piazza, la torre campanaria andava gradatamente rischiarandosi di luce nuova, dopo aver resistito indomita alla Tempesta Nera. Nel giorno dei funerali, dal cielo, diciassette stelle vigorose d’avvenire illuminarono le bare di quei martiri della Libertà, figli del Po e della Pianura, che divennero adulti troppo presto e furono seppelliti dai loro genitori. Quel giorno compresi che la vita dei miei amici era stata breve quanto un sospiro, ma che la loro leggenda li avrebbe resi immortali.
(Estratto da Tempesta d’aprile, a cura di Valerio Bonaretti, Alberti editore)