Lettera a chi ha avuto il coraggio di morire per la libertà!
Caro zio Massimiliano, è Valentina che ti scrive, la figlia di Ileana, a sua volta figlia di Maria Polacci tua sorella.
Il 17 settembre del ’44 i fascisti ti hanno fucilato davanti alla Rocca di Reggiolo insieme ad altri civili (il dott. Angeli, l’ing. Marani, il col.Sacchi) come atto dimostrativo e intimidatorio nei confronti della gente. Secondo i fascisti eri complice della resistenza nell’aver fatto saltare una camionetta di tedeschi lungo il Po. Ecco zio volevo dirti che l’atto intimidatorio è fallito! È il 2024, la tua famiglia e la gente non vi hanno dimenticato. I valori per cui siete morti come la democrazia e la libertà sono vivi!
È importante ricordarlo sempre ma sopratutto adesso dove pochi come allora tentano di condizionare il pensiero del popolo con idee di “diversità “, potere, prepotenza e razzismo. Risponderemo con ciò che voi ci avete lasciato: rispetto, libertà, inclusione, uguaglianza. Ti abbraccio zio per il tuo coraggio e per quello di chi ti ha seguito. Resistenza SEMPRE. (Valentina)
Posata la prima pietra d’inciampo a Quattro Castella
Come delegazione Anpi Quattro Castella abbiamo partecipato lunedì 22 gennaio, nell’ambito delle celebrazioni della Giornata della Memoria, ad un’intensa cerimonia promossa dal Comune: la posa della prima “Pietra di inciampo” in territorio castellese, dedicata a Renato Lanzi, internato militare in un campo di concentramento in Prussia, deceduto a soli 22 anni in Germania. Davanti a quella che è stata la casa della famiglia, che ha vissuto le esperienze più drammatiche negli anni della seconda guerra mondiale, con la morte di quattro figli tra il ’42 e il ’45 (in successione Francesco, Nino Valentino e Renato), erano significativamente presenti il Sindaco Alberto Olmi, l’Assessore alla Cultura Danilo Morini, l’Assessore alla Scuola Sabrina Picchi, i numerosi i famigliari. Tra questi la pronipote Marta, la nipote Renata Caso, autrice dell’interessante libro che ci è stato donato, “La saga dei Lanzi. Storia di una famiglia reggiana”, (risultato di una lunga e appassionata ricerca). Gli studenti della terza D della Scuola Media “A. Balletti” erano accompagnati dai docenti, da Pamela Gambetti e da Matthias Durchfeld di Istoreco, ambedue molto impegnati nei laboratori con gli studenti “per trasformare la memoria privata in memoria collettiva”, sia in vista della posa delle pietre che dei viaggi della memoria.
L’artista tedesco Gunter Demning, per impedire la dimenticanza o peggio ancora il negazionismo, ha posato ad oggi oltre 100.000 pietre d’inciampo in tanti paesi europei, più di mille in Italia. Si tratta di “piccoli monumenti che vogliono restituire dignità di essere umano a chi fu ucciso, far riflettere sull’orrore di ciò che avvenne e vigilare perché ciò che è accaduto non si ripeta mai più”. Ai primi di febbraio 2024 le pietre d’inciampo posate a Reggio E. e provincia sono 118, in 22 Comuni. “Tante” sottolinea M. Durchfeld, “ma poche rispetto ai 9.000 deportati reggiani, di cui 500 sono morti spesso senza che i famigliari conoscano data della morte e luogo di sepoltura, e soprattutto rispetto ai milioni di persone cui è stata tolta la vita dai fascisti e dai nazisti”.
Renato, dopo essere stato chiamato alle armi, il 9 settembre del ’43 fu catturato dai tedeschi e in un viaggio che immaginiamo terribile su un carro bestiame, fu rinchiuso nel lager 1 B di Hohenstein. Le poche notizie che si conoscono sono tratte dal libro citato, scritto dalla nipote Renata; la figlia Marta, con un dolente e lucido coinvolgimento per la consapevolezza del dovere della testimonianza e insieme del dolore della stessa, è intervenuta dandoci notizie e proponendoci riflessioni importanti: ”Conosciamo le terribili condizioni del Lager grazie alle parole dello scrittore Mario Rigoni Stern, internato nello stesso campo almeno per un primo periodo: la sintesi è fame, freddo, fatica, malattia, soprusi, paura, morte (…). In quel campo morirono circa 50.000 prigionieri, lavorando in condizioni disumane.
Sappiamo che, come IMI, Renato avrebbe potuto tornare in Italia aderendo alla R.S.I., ma questo non avvenne. “Riuscì a resistere fino alla fine della guerra; poi, come tanti, iniziò la peregrinazione per il rientro. A casa però non arrivò mai: morì su un treno vicino a Francoforte sull’Oder, oggi al confine fra Germania e Polonia”. Per molti, troppi anni i familiari non ebbero alcuna notizia, tanto che Lina, nonna di Marta e sorella di Renato, per difendersi dal dolore di una conferma della morte, si rifugiò in un ricordo consolatorio: forse Renato aveva deciso di non tornare dopo aver saputo della morte dei fratelli e si era fatto una famiglia in Russia.
Dopo inesauste ricerche tra archivi, Associazioni, pubblicazioni, e con la collaborazione di Anpi nella figura del Presidente Giacomo Notari, di Istoreco con l’aiuto di Amos Conti e Matthias Durchfeld, tra notizie contraddittorie ancora in parte irrisolte, Renata ha potuto recarsi nel cimitero di Francoforte (dove Renato era deceduto nel viaggio di ritorno, come tanti altri), chinandosi “a pulire la lastra di pietra su cui compare ‘, con altri tre, il nome di Renato anche se alterato in Lauri”. Immaginiamo con le lacrime agli occhi.
Ad Anpi sta molto a cuore il tema della memoria pubblica, che deve diventare coscienza collettiva; come avvenuto a casa Lanzi, occorre far sì che lo sguardo su “quel” tempo diventi uno strumento di lettura del presente, un impegno morale! Il silenzio pubblico su fatti e interpretazioni del passato è ”il cemento indispensabile dei regimi”. Il silenzio privato, familiare, come ricorda Marta, è mancanza e dolore: “nel tempo abbiamo capito che tutti, come famiglia, abbiamo vissuto nell’assenza di Renato, un’assenza mai elaborata fino in fondo”.
Non è sufficiente raccontare, col rischio della standardizzazione; nel racconto manca la componente emotiva che ha coinvolto profondamente tutti noi il 22 gennaio a Roncolo. Occorre “lavorare con” e coinvolgere attivamente le giovani generazioni, come avvenuto nel corso dei tre laboratori di approfondimento in classe, insieme alla Biblioteca comunale di Quattro Castella e a Istoreco, trasformando gli studenti da uditori passivi a soggetti attivi. “Ricordare per cambiare” afferma don L. Ciotti; la memoria è “l’intensità del presente” (L. Magris).
La fisicità della Pietra d’inciampo “restituisce in qualche modo significato e memoria di un ragazzo che ha testimoniato con la sua vita i valori della pace e della libertà. Sta a noi, adesso, proteggere e conservare ciò che ci è stato dato con così grande sacrificio”. Ricorda Matthias che dal 2015 ad oggi siamo diventati parte attiva di questo monumento diffuso che si sta costruendo in tutta Europa, per dare nome e storia alle tante persone tragicamente ridotte a un numero dai nazisti nei campi di sterminio.
Renato è tornato finalmente a casa, accolto nella sua famiglia e nella sua comunità, nella memoria collettiva, che è esercizio del presente, e nella pace. (Fiorella Ferrarini)
Laura Cavazzoni in Reverberi
Non è facile sistemare il mondo di Laura [1], lei credeva di aver fatto una vita semplice, in verità è stata donna che ebbe il coraggio di vivere la seconda guerra mondiale tra l’amore, la paura e l’orgoglio di chi non voleva mollare il sogno della libertà. E fare una figlia. Si considerava una donna normale come altre del suo tempo, gli esempi li aveva di fianco a Villa Cavazzoli. Era giovane, oggi di lei diremmo una ragazza, neanche vent’anni ma già tante responsabilità fin da quando era bambina e maturò la convinzione di seguire la strada della lotta politica per un mondo dove le persone potessero avere uguali diritti, una idea vissuta in famiglia, sostenuta da un grande matrimonio d’amore con Walter e la voglia in un mondo più bello per sua figlia Giuliana.
La storia le ha scandito le tappe fondamentali, nozze nel 1942, nascita della figlia dopo sei mesi [2], l’impegno politico clandestino nell’antifascismo, la separazione dal marito dopo la caduta di Mussolini. Walter Reverberi [3] andò in montagna a fare il partigiano, lei si impegnò come moglie di un partigiano a compiere azioni concrete apparentemente minime ma importanti per i collegamenti tra antifascisti. Finalmente la Liberazione dal nazifascismo le permetterà di vivere in democrazia una vita normale, una bella famiglia con Giuliana e Walter diventato ferroviere e Capostazione delle Ferrovie dello Stato prima a Cadè e dopo a Reggio Emilia. Morì prima di Laura ma in famiglia fu sempre presente con la sua la voce calma e concreta che a ripensarla emoziona ancora.
Di semplice nella vita di Laura giovane, ragazza e mamma di Giuliana, moglie del partigiano Walter, non ci fu niente, il destino l’aveva messa in difficoltà fin dall’infanzia. Questo il suo racconto.
Sono rimasta orfana a due anni, ero cresciuta nella famiglia di mia madre, quella dei Vologni, lo zio Aurelio fratello della mamma lo mettevano in prigione ogni 1° Maggio, fu arrestato nel 1928 dal tribunale speciale e perse anche il lavoro in calzificio, uscito dalla galera emigrò in Francia e poi nel 1936 espatriò in Spagna per la difesa della Repubblica. Dopo andò in Africa. A Liberazione avvenuta rimase disoccupato due anni, venne aiutato dalla sorella, poi fece lo stradino. Un’altro zio, Mario mi chiese di tacere quando nel “tasel” mi venne in mano il suo passaporto per la Francia e io gli domandai dove vai? Mi raccomandò di tacere; avevo sei anni e tenni il segreto. Era la prima responsabilità politica che prendevo senza saperlo. Mario è stato partigiano in Pianura, fece il carcere con Paietta, sua moglie Ester [4] aveva la mia stessa età e nella lotta di Liberazione seguì sempre il marito negli spostamenti per evitare l’arresto, lo sostituiva negli impegni e fece la staffetta partigiana. Aggiungo io modesto biografo di Laura che in quel conflitto “il lato forte dei reggiani è stato femminile”.
Quando scoppiò la guerra nel 1940 [5] Walter era soldato. Ci siamo sposati nel 1942, era tornato a casa convalescente per la malaria, venne richiamato in sevizio militare ma dopo sei mesi ritornò a lavorare alle Reggiane grazie alla richiesta del Direttore ing. Vischi. Mia madre era la sarta di sua moglie. Il 28 luglio del 1943 l’esercito sparò agli operai che protestavano davanti ai cancelli della fabbrica, uccisero 9 persone e tra loro una donna incinta [6]. Dopo l’eccidio Walter non andò più a lavorare in quelle officine, si mise a fare il contadino nei campi. Il fascismo era crollato e l’esercito allo sbando, Bruno [7] ritornò a piedi da Fiume, si nascose per 7/8 mesi poi andò in montagna. I primi partigiani fecero la battaglia di Cerrè Sologno.
Quando c’era il fascismo, si facevano riunioni in mezzo nel grano [8] per distribuire i volantini del PCI. Li mettevamo anche nelle gambe di legno di Giuseppe [9]. Il 23 luglio ’43 cadde Mussolini, in quell’anno mi ero iscritta al PCI, avevo 21 anni, abitavo ai Cavazzoli e lì ci conoscevamo bene. Continuò Laura. La paura circolava perchè l’Italia era allo sbando ma si dovevano concretizzre gli impegni per la lotta armata contro i fascisti e soldati tedeschi. Paolo Davoli consigliò a Walter di creare le SAP, gli diede la sua rivoltella dicendogli “ti auguro di usarla quanto me, cioè mai”. Walter andò in montagna nel novembre del 1944. Quella rivoltella l’ho consegnata al Museo della Resistenza di Reggio.
Eravamo in guerra e le azioni partigiane si facevano sentire, il prezzo era alto, ho visto i corpi di 4 ragazzi “ingrugnati” nel fosso, ho messo le mani nella tasca di uno ed ho trovato la tessera del tabacco, aveva 19 anni, era un Guardasoni di Pieve, mia madre andò ad informare i parenti. Nel ritorno sulla strada di Roncocesi verso i Cavazzoli li guardò di nuovo, le mani legate col filo di ferro e la testa nel pantano. Intercala Laura, adesso il cippo che li ricorda è sempre in ordine. Mia madre era spaventata, vide anche quelli uccisi a Villa Cadè.
Alcuni familiari mi rimproveravano perchè avevo una figlia piccola ed i rischi per andare a Villaminozzo in bicicletta a trovare Walter tra i partigiani te li lascio immaginare. La paura faceva “novanta”, quando passava “pippo” [10] era niente, il terrore erano le macchine sotto casa perchè le avevano solo i fascisti e tedeschi, “pippo” non ci interessava noi avevamo paura che ci bruciassero le case. Potevi fare degli incontri che non ti aspettavi, una volta scesero da un pullman molti fascisti, fecero allineare tutti gli uomini, presero Ribelle [11], andarono a casa sua, perquisirono mettendo sottosopra la camera e sopratutto frugarono nel comò. L’Iride, moglie di Ribelle, ad un certo punto si arrabbiò e disse basta che lasciassero stare, non c’era niente, i “ragazzi neri” andarono via. Più tardi Ribelle e la moglie si accorsero che in una scatola si trovava lo stemma quadrato del PCd’I del 1921, rossa con falce e martello, piccola come un bottone. Fummo fortunati. Quando presero Ribelle c’era anche Walter ma lo lasciarono andare.
Col cuore in allarme la paura era sorella gemella del coraggio. I SAP di Cavazzoli andavano fuori di notte, quando rientravano mettevano le armi nell’ossario del cimitero, qualcuno gli consigliò di spostarle ma uno la mise ancora in quel posto, era uno sfollato [12] e stava dal contadino del prete. Di sicuro ci fu una spiata perchè i fascisti trovarono il fucile e se la presero con il figlio del campanaro anche lui delle SAP che il suo moschetto l’aveva nascosto sotto l’altare della chiesa, riuscì a scappare ma venne catturato a Ciano e ucciso per rappresaglia con altre venti persone. Non ricordo bene se a Cerredolo.
Senza essere vista prendevo di nascosto le biciclette ai soldati tedeschi in Via del Palazzolo o via San Pietro Martire, erano alte e nere, dovevo far presto ad infilarle dentro un portone in Piazza San Lorenzo, entravo nel cortile e le consegnavo a Giaroni, un persona anziana sui settanta anni. Ai Cavazzoli di notte attaccavamo i volantini sui muri contro i fascisti di Salò, andavo con la Camilla. Una volta che ritornammo a casa ci siamo accorte che il secchio di colla aveva un buco dal quale cadevano le gocce e segnavano il nostro percorso. Tanta paura ma c’è andata bene.
Con la bicicletta sono riuscita a raggiungere Walter il giorno di Pasqua del 1945 [13], per arrivarci andai da Castellarano, c’erano solo mulattiere, era un mondo diverso da quello che conoscevo, a Reggio c’erano le strade. Con Walter c’era Bruno il fratello ed un altro ed anche Carretti [14], in tutto erano quindici a Gaggiola e Carù. Mangiavano polenta e castagne. Una colonna di tedeschi e fascisti da fondo valle iniziò l’attacco alle posizioni partigiane proprio quando mi trovavo lì. Altro che paura, una “fifa della Madonna”. Vennero respinti e dopo tornò tutto normale. Un ragazzo di Roncocesi mi chiese di portare un saluto a sua madre che abitava vicino alla Via Emilia, cosa che feci, andai con mia madre Maria. Alla mamma del giovane partigiano dissi “le porto i saluti di suo figlio”, lei mi rispose “non c’è dubbio che mio figlio è in Germania!”. Le risposi io le dico così lei faccia quello che crede. Quella mamma era una persona accorta, stava sul chi vive perchè i fascisti usavano delle spie per conoscere le famiglie dei partigiani.
Una mattina dei primi mesi del ’45 io e la Camilla [15] siamo andate dal fornaio di Cadelbosco Sotto perchè ci avevano detto che prima di Santa Vittoria c’erano cinque morti, si diceva che erano dei ragazzi venuti dalla montagna. Chiedavamo informazioni e volevamo vedere se c’era il marito o il fratello. Arrivammo sul posto e tirai su il lenzuolo e vidi Foscato morto, un brivido raggelante. C’era anche il corpo di Erio Benassi, poi sapemmo che tentò di scappare. Al nostro Paolo Davoli mancava una gamba, l’aveva rotta saltando giù dalla finestra per fuggire dal carcere.
Il 24 aprile del ’45 con la Camilla e Loredana [16] siamo andate a prendere moschetti e bombe a mano nel Palazzo della Concezione nel centro di Reggio, armi lasciate dai tedeschi in fuga. Le caricammo sopra ad un carretto senza alcuna precauzione, dovevano arrivare a Walter e Bruno, le portammo al Quinzio dove c’era la casa di Irma, poi ci pensava lei a farle recapitare in montagna. Il giorno dell’arrivo dei partigiani in città, il 25, non vidi ne Walter ne Bruno, però andai in piazza con le donne dei Cavazzoli, di fianco avevo Paola Davoli la figlia del nostro Paolo. Finalmente potevamo sbandierare il “tricolore” della “liberazione”.
Nelle settimane dopo il 25 aprile Walter era stato inquadrato nella polizia ferroviaria mentre Bruno in quella partigiana, mio marito aveva la possibilità di partecipare ad un concorso per diventare “capostazione” delle ferrovie dello Stato. Andai al Distretto militare per chiedere il foglio matricolare necessario per fare l’esame, fui male accolta dall’Ufficiale, mi chiese se era lureato, io risposi no, ha la quinta elementare, quello si mise a urlare ma “cosa vogliono questi partigiani, cosa vuole da noi? Laura mi guarda e dice che c’era da aver paura. Un brutto risveglio di fronte ad una cariatide del vecchio Stato italiano non ancora scomparso. Ma la fine intelligenza delle donne reggiane che hanno combattuto e sperato in giorni migliori hanno interpretato nel modo più logico la transizione politica. Mi hai detto, “quando siamo andati a votare la prima volta avevamo un entusiamo da non credere [17]. E quanti sacrifici abbiamo fatto!”. Dopo pochissimi anni io con Ester ed un’altra compagna facemmo per i bambini il primo l’Asilo dell’UDI di via Bainsizza, Ester la dirigeva io l’aiutavo. Non sembra ma c’era libertà.
Con questo ultimo ricordo Laura ha terminato il racconto, al biografo rimane il compito di aggiungere che la bella Costituzione democratica dell’Italia conquistata con la Resistenza è la più nobile delle medaglie che dobbiamo appendere alla memoria di Laura Cavazzoni in Reverberi [18]. (Riccò Gian Franco (8 gennaio 2021)
[1] Laura Cavazzoni nata nel 1922
[2] Giuliana Reverberi nata nel 1942.
[3] Walter Reverberi nato nel 1919, deceduto nel 1994, fratello di Ribelle, Giustizia, Camilla e Bruno.
[4] Vercalli Ester di Montecavolo.
[5] In realtà la II guerra mondiale iniziò nel 1939 ma l’Italia entrò nel conflitto
[6] Domenica Secchi.
[7] Bruno Reverberi fratello di Walter era nato nel 1922.
[8] Ovviamente prima della trebbiatura.
[9] Riccò Giuseppe grande mutilato della prima guerra mondiale portava protesi di legno per camminare.
[10] L’aereo caccia “pippo” sorvolava il cielo delle città e campagne per mitragliare le colonne dei soldati tedeschi.
[11] Reverberi Ribelle fratello di Walter e Camilla.
[12] Gli sfollati erano i cittadini che si rifugiavano in campagna per evitare i bombardanti della città.
[13] Nel 1945 la Paqua capitò il 1° aprile.
[14] Giuseppe Carretti, partigiano, Sindaco di Cadelbosco dopo la Liberazione, Presidente dell’ANPI provinciale di Reggio Emilia.
[15] Camilla Reverberi sorella di Walter e nuora di Riccò Giuseppe.
[16] Loredana Reverberi figlia di Ribelle e nipote di Laura. A quel tempo una ragazzina.
[17] Prima volta del voto alle donne nel 1946, prima volta per far nascere la Repubblica italiana dopo la conduzione disastrosa delle guerre approvate da Vittorio Emanuele III°.
[18] Laura nata nel 1922 è deceduta il 23 dicembre 2020 all’età di 98 anni.
Il tricolore liberato grazie alla resistenza
Dopo il “sequestro” da parte del Fascismo
Tutti molto interessanti gli interventi pubblicati, oggi 6 febbraio, sulle pagine della Gazzetta, in seguito all’appello lanciato dal quotidiano reggiano. Mi chiedo però dove siano finite le bandiere storiche delle brigate e delle varie formazioni partigiane reggiane – tutte tricolori – tolte quasi mezzo secolo fa dalla sala dei civici musei dedicata alla Resistenza . Una sala che faceva seguito a quelle dedicate al Risorgimento, e che fu smantellata assieme a queste ultime.
Il pur benemerito Museo del Tricolore, che poi fu installato nel Palazzo comunale, recuperando parte dei cimeli risorgimentali, non si conclude, come avrebbe dovuto, con le vicende della Resistenza e consequenziale “restituzione” del Tricolore (dal 1921 “sequestrato” dal fascismo) a tutti gli italiani. Una restituzione che va documentata proprio anche con la esposizione dei tricolori partigiani. Che dopo il 25 aprile non furono sostituiti dalle bandiere rosse. Anche se per alcuni, legittimamente, vi si accompagnarono, in una visione di generosa utopia internazionalista. Sul settimanale dei partigiani reggiani “Nuovo Risorgimento”, il 5 gennaio 1947, il segretario del Pci reggiano ed ex comandante partigiano nella Brigata Garibaldi, in Jugoslavia, Valdo Magnani, scriveva, quasi in modo autobiografico:
“Molti italiani sono stati mandati a combattere fuori dal territorio della Patria. L’amarezza che viveva in loro diventava impeto di commozione quando vedevano sventolare il Tricolore. Era però anche un senso di sofferenza, poiché, di fianco alla croce uncinata, stava a rappresentare, di fronte ad altri popoli, oppressione, dominio della violenza.
Il nostro Tricolore non ci è stato regalato da nessuno, il popolo lo ha conquistato “.
Dal canto suo Didimo Ferrari Eros, già commissario generale delle formazioni partigiane reggiane, e dalla fondazione segretario carismatico dell’ANPI, annotava sul suo Diario il 4 marzo 1947: “Il Presidente della Costituente [il comunista di origine ebraica Umberto Terracini, NdR] mi ha risposto che appoggerà la richiesta fatta per stabilire che il 7 gennaio sia considerata solennità civile e Giornata del Tricolore”. Non servono miei commenti. Solo un auspicio: che il 27 febbraio, a Fabbrico, un altro Luca T. non torni ad innalzare la bandiera di combattimento della Rsi. Tricolore, sì, ma con quella rapace aquila al centro, solo furbescamente privata del fascio littorio fra gli artigli. Nel 1944, quella bandiera, sventolava di fianco a quella, rossa, ma recante nel disco bianco la nera svastica generatrice di Auschwitz. (Antonio Zambonelli)
Mio nonno Mario
Non ho mai conosciuto mio nonno, morto nel 1970 prematuramente, solo quattro anni prima della mia nascita. Mio nonno si chiamava Mario, ho imparato a conoscerlo sulle fotografie che la nonna mia ha sempre mostrato e dai suoi racconti quand’ero bambino, non tante cose a dir la verità, la sua bontà, la sua mitezza, la sua dignità in ogni scelta, in anni sofferti durante e dopo la guerra. Ancora bambino sarebbe stata tanta la voglia di averlo con me, poi col tempo i sentimenti impari a metabolizzarli e quel che più mi è rimasto di lui è forse quell’indole un pò ribelle, quel non volersi mai uniformare, quel volersi sentire liberi anche quando qualcuno vorrebbe metterti i piedi in testa. Mio nonno era partigiano, uno dei tanti, fece una scelta non facile, ma la fece, mentre altri preferirono imboscarsi o starsene zitti, quando tutto pareva andare in malora. Altri ancora scelsero la tirannia e servire gli invasori. A guerra finita, a Liberazione raggiunta, tornò a casa come tutti i partigiani, senza bisogno di medaglie, di riconoscimenti. Nessuno lo obbligò, tantomeno tutti gli altri suoi compagni di lotta, il loro era un obbligo morale di fronte al sentimento che provavano per la loro terra, per i loro cari, la consapevolezza che scegliere è il mezzo per essere liberi. Quella scelta che mai avrebbe sconfessato, tantomeno oggi se ancora ci fosse, che a quella generazione che fece la Resistenza, invece di onori o ringraziamenti almeno, si tributa fango, offese, calunnie. Oggi (domani per chi legge, 25 settembre) mio nonno avrebbe compiuto 87 anni, classe 1925 la sua, non ho mai parlato di lui, ne scritto, sento però in anni come questi di ricordarlo, senza troppa enfasi, daltronde è questo che più mi hanno insegnato di lui, l’umiltà delle cose semplici. Fu tra i primi a partire per le nostre montagne già ai primi di luglio del 1944, inquadrato con la 144° Brigata Garibaldi, poi, dopo il grande rastrellamento del 20-22 novembre 1944 sul Monte Caio, quando perse tanti cari amici, perchè i partigiani erano uomini e amici, dal successivo mese di dicembre, tornò in pianura, lui nativo di Cavazzoli, nella 76° Brigata Sap. Non ebbe bisogno di cartoline precetto per partire e con lui tutta quella generosa generazione di donne e uomini che non aspettarono che la libertà piovesse dal cielo, se la sono andati a riprendere. Oggi lo si dimentica, addirittura gli eroi oggi , sono diventati gli assassini, i vigliacchi, i traditori, i torturatori, quei fascisti che quelli come mio nonno hanno combattuto. Quanta amarezza e se la provo io, che sono nato tanto tempo dopo, un nipote come altri, provo ad immaginare mio nonno, se ancora ci fosse, cosa direbbe di tutto questo e provo ad immaginare cosa possono sentire nel cuore quelli che invece sono ancora qui con noi. Ecco, mio nonno è stato questo, forse tanti altri leggendo si riconosceranno nelle mie parole, d’altronde quelli come mio nonno erano persone semplici e una volta finita la guerra tornarono a casa per ricostruire, per ricominciare, a volte persino a doversi vergognare per quella cosa grande che avevano fatto, non perchè avessero sbagliato, ma perchè il mondo non era cambiato come si sarebbero aspettati. Lo guardo in una foto, sempre la solita che ho di lui, vorrei ringraziarlo per tutto, ma so benissimo che non vorrebbe sentirselo dire. Ciao nonno, la tua idea vive con me. (Alessandro Fontanesi)
La scandalosa ed inaccettabile escalation del solito, falso e tendenzioso “revisionismo” riapparso in seguito alle dichiarazioni pubbliche del Presidente di ISTORECO Mirco Carrattieri alla festa provinciale del PD, nonchè la riscoperta del “chi sa parli” e la altrettanto pretestuosa ed indegna polemica sul Comandante “Eros” e sui delitti del dopoguerra, ci induce, quali iscritti all’ANPI, a richiedere alla ns. Presidenza di prendere una forte e decisa posizione in merito, alfine di circoscrivere definitivamente le continue illazioni e denigrazioni nei confronti della Resistenza prima di tutto ed in questo caso, anche nei confronti dell’ANPI. Tale risposta è a nostro avviso indispensabile, non solo verso i mezzi della stampa, i quali (più per scoop editoriale che per autentica ricerca di verità storica) cavalcano qualsiasi notizia “utile” per affermare che c’è stata una Resistenza cattolica buona ed una comunista cattiva; ma anche verso l’opinione pubblica. In particolare quella giovanile che, troppo lontana da quegli eventi, può essere negativamente condizionata da una fuorviante e falsamente tendenziosa informazione. È responsabilità di tutti noi evitare che ciò accada, riaffermando ora e per il futuro, con costante continuità, gli intramontabili e più che mai attuali valori che sono nel dna dell’Anpi e della Costituzione italiana. Riteniamo quindi, per i motivi appena citati, sia necessario affermare alcuni punti operativi che permettano immediatamente di affrontare, non solo i recenti attacchi dal sapore più o meno fascista, ma soprattutto di creare con essi le basi per nuove strategie di comunicazione verso l’esterno, sia politicamente che socialmente. In dettaglio: 1) Qualsiasi risposta ufficiale che coinvolga la Presidenza, riteniamo debba essere sviluppata in modo unitario e non lasciata alla sola responsabilità del Presidente. 2) Chiarire la posizione di ISTORECO nei confronti dell’ANPI, con i mezzi ritenuti più opportuni dalla Presidenza stessa. 3) Considerando la valenza degli ultimi accadimenti editoriali, è a nostro avviso indispensabile investire l’ANPI nazionale di una responsabilità che va oltre il nostro territorio. Pensiamo che Reggio Emilia meriti questa attenzione, alla luce di quanto nella storia ha pagato per conquistare e mantenere la democrazia nel nostro Paese. Attenzione, se si sgretola il tessuto sociale profondamente democratico e antifascista che da sempre caratterizza la nostra terra reggiana, ne perderebbe non solo l’ANPI, ma sicuramente tutto l’arco dei partiti politici che si riconoscono nei valori dell’antifascismo, della Resistenza e della Costituzione. 4) Costituire un futuro gruppo di lavoro, coordinato con la Presidenza, che si occupi della comunicazione, in modo di essere non solamente pronti a dare risposte chiare ed immediate, proprio verso qualsiasi accadimento che coinvolga l’associazione, ma diventi organo costantemente aggiornato , propositivo e divulgativo nell’affermazione dei valori che l’ANPI rappresenta. Disponibili per sviluppare insieme i temi soprascritti, rimaniamo a disposizione dell’Associazione. (Bigi Giovanni, Fontanesi Denis, Manzotti Maria, Orlandini Enrico, Toschi Luigi)
Ho letto sulla Gazzetta di Reggio, il resoconto del dibattito di domenica 22 c.m. tenutosi a Festa Reggio,sulla figura di Giorgio Morelli, soprannominato “il Solitario”. Voglio subito precisare, che sono iscritto all’ANPI da tanti anni come amico e, come tale faccio volontariato nella stessa organizzazione. Sono figlio di uno dei tanti Partigiani combattenti, che ha pagato di persona, con tre anni di carcere,” perché comunista e Partigiano “ perché l’anticomunista ma non fascista Mario Scelba, allora ministro dell’Interno, si era proposto assieme ad una parte della DC, di cacciare i Partigiani che erano entrati nel corpo della Polizia di Stato. Usando metodi che ancora oggi l’anticomunista Berlusconi, ma non fascista usa e riscopre. Cioè montando casi non veri, usando denunce false (vedi Capitano Vesce) processi falsati (vedi Nicolini, Baraldi , lo stesso Cattini, Ganapini e tanti altri Partigiani.), avvalendosi anche del contributo di certi prelati della chiesa . ecc. ecc. Poi anch’io sono stato iscritto al PCI, fino alla sua scomparsa, non me ne vergogno e ne sono fiero, anche perché, per me e per tanti altri il PCI è stato non solo una scuola politica, ma morale , culturale. Voglio poi dire agli storici di oggi, con tutto rispetto che mai il PCI e l’ANPI mi hanno insegnato ” che chi era anticomunista era fascista, a quei tempi anche la DC era anticomunista, ma pur nella diversità e nelle battaglie anche aspre c’era rispetto e confronto di idee, oggi purtroppo, non c’è più, c’è un capo che bisogna ubbidire se no si è cacciati, molti intellettuali si sono adeguati per convenienza o pigrizia mentale. Non vedo il nesso e non capisco il perché si è voluto coinvolgere l’ANPI in un assurda polemica, anzi da quando io frequento tale associazione ha sempre condannato i delitti del dopo guerra. Ma se i giovani storici non tengono conto o non sanno in che contesto storico si sono svolti i fatti, credo che non possono essere utili a dare un contributo ,anzi cadono anche loro, nell’errore di Pansa denunciato dallo stesso Carrettieri nel dibattito alla festa. Ultima cosa che mi sento di dire, ai dibattiti o si va preparati e si conosce la storia e il suo contesto fino in fondo, ma non si può come si dice a Reggio “dare un colpo alla botte e uno al cerchio”, come si è fatto domenica sera, perché cosi non si contribuisce alla ricerca della verità, ma si alimenta ancor di più la confusione. (Luciano Cattini)
Al presidente Notari dal nipote di “Eros”
Buongiorno presidente Notari, mi chiamo Valerio Braglia e sono nipote di Didimo “Eros” Ferrari. Mi sono deciso a scrivere queste poche righe a lei perché, le assicuro, sono veramente stanco di veder infangata quotidianamente la memoria di mio nonno, che sistematicamente è tirato in ballo per qualsiasi polemica, sia essa inerente la guerra di liberazione (vedere articolo di Eboli su “l’informazione” dal titolo “dietro la strage di Cervarolo/il ruolo del comandante Eros”), sia essa inerente ai fatti del dopoguerra (vedere da ultimo articoli di Zambrano su “il giornale di Reggio”). Come sicuramente ben saprà, mio nonno è prematuramente scomparso il 7 ottobre 1959 . . sono passati tanti, troppi anni da allora . . mia mamma aveva 12 anni ed io sarei nato solamente nel 1978 . . da bambino in molti mi raccontavano di quanto fosse stato coraggioso mio nonno, ma io, in quegli anni, avrei solamente voluto aver un nonno con cui giocare e divertirmi. Ora, forse ancora più di allora, lo avrei voluto conoscere perché forse il giorno del mio compleanno (ndr sono nato mercoledì 15 marzo 1978) mi avrebbe raccontato della battaglia di Cerrè Sologno (ndr battaglia avvenuta mercoledì 15 marzo 1944) e di tanti altri episodi inerenti la guerra di liberazione e del dopoguerra. Prendendo spunto da quanto scritto sul sito ANPI in merito alla figura di mio nonno “ . . . Didimo Ferrari nel corso della sua tormentata storia, soprattutto dopo la morte, è stato oggetto delle peggiori calunnie e delle più volgari offese, volte non solo a gettar fango alla sua memoria, ma soprattutto a screditarne il ruolo che ebbe durante la Resistenza proprio perché comunista . .”, se veramente avete a cuore la sua memoria vi chiederei di prendere posizione in modo più energico nei confronti di chi continua pretestuosamente a gettare fango contro di lui. Io posso solo essere un testimone che verrebbe definito di parte perché posso citare solo ciò che mio nonno ha scritto nei suoi diari e nelle lettere indirizzate a mia mamma, mia zia e mia nonna. Voi (ANPI, ex PCI, ISTORECO, ecc. . ) sicuramente avete accesso a documenti e a informazioni che possono fare luce sui tremendi fatti di quei controversi anni e sulla figura di mio nonno . . non prendere una posizione netta e decisa per porre fine a questo continuo linciaggio equivale a mettere la testa sotto la sabbia e a lasciare la memoria di mio nonno in balia del prossimo presunto storico in cerca di gloria personale. Sono passati 20 anni dall’articolo di Otello Montanari sul “resto del carlino” dal titolo “Rigore sugli atti di Eros e Nizzoli”, ma dopo 20 anni mi sembra che non sia stata fatta ancora chiarezza . . o meglio non si sia posta ancora la parola fine a questa querelle . . questo mi riempie di amarezza perché ho la sensazione che mio nonno sia stato assunto a capro espiatorio di tutti i mali del dopoguerra, non tanto da chi vuole gettare discredito sulla lotta partigiana ma da chi dovrebbe difenderne la memoria . . perché è molto facile dare tutte le colpe a chi ci ha lasciato da oltre 50 anni, lasciando orfane 2 bambine di 10 e 12 anni e una moglie con grossi problemi fisici. Gettare fango contro Eros equivale a gettare fango contro l’associazione che lei rappresenta, associazione che si prefigge lo scopo di “tutelare l’onore e il nome partigiano contro ogni forma di vilipendio o di speculazione”. Chiudo questa mi lettera con una domanda: se non si riesce a fare chiarezza dopo tanto tempo, tra 20 anni cosa verrà ricordato della figura di mio nonno quando tutti o quasi i testimoni dell’epoca non ci saranno più? Le rispondo che per quanto mi riguarda la figura di mio nonno, non potrà mai essere intaccata da nessuno perché i valori per i quali ha combattuto sono arrivati intatti e rafforzati a me attraverso mia madre, mia zia e mia nonna . . l’uomo che oggi sono lo devo anche agli esorcismi, alle torture, alle sofferenze, alle privazioni, al confino che mio nonno ha subito nella sua vita . . al quale sarò sempre grato . . e del quale sarò sempre orgoglioso. Con stima. (Valerio Braglia)
Risposta del presidente Notari:
Carissimo Valerio, capisco il tuo sdegno per l’infame e reiterata campagna di calunnie che riguardano il tuo nonno Didimo. Su tante pagine della rivista di Istoreco, RS, e del “Notiziario ANPI”, abbiamo raccontato e documentato la sua troppo breve vita, costellata di sofferenze fin dall’infanzia e caratterizzata da lotte per la giustizia e la libertà, lotte che gli sono costate anni di privazione della libertà nel ventennio fascista ma che non ne hanno piegato lo spirito come dimostra il coraggio e la determinazione con cui ha guidato, come Commissario generale, la lotta partigiana nella nostra provincia. Troppe persone ignorano quelle pagine o fingono di ignorarle. Personalmente ho avuto il privilegio di incontrarlo a Lama Golese (o “alla Magolese”, come dicevamo allora) ai piedi del Cusna, nell’estate del 1944. Avevo solo 17 anni e i componenti del Comando unico, compreso tuo nonno, pur non essendo molto più vecchi di noi, ci apparivano come dei padri e mettevano in noi un senso di rispetto e di stima. Con Didimo (che per noi era Eros), dormimmo in una capanna già dimora di pastori, assieme ad altri tra cui Osvaldo Salvarani. Conservo il ricordo di “Dario”, Giuseppe Carretti, che venne premiato da tuo nonno con una manciata di castagne secche che teneva in tasca: erano i tempi della fame… Anch’io provo sdegno contro gli attuali calunniatori, ma poi mi consolo pensando alla grande eredità di affetto che ha lasciato in tutti noi. Il coraggio dimostrato e la forza morale di tuo nonno Didimo ti siano di aiuto a superare anche questa ennesima prova. Sii forte perché il cammino avviato da tuo nonno non è ancora concluso: finché sulla terra ci saranno esseri umani senza cibo e senza la gioia del sapere, ci sarà sempre bisogno di nipoti come te. Con affetto Giacomo Notari.
Lettera di Anna Ferrari al padre Didimo “Eros” nel 51° anniversario della sua morte (07.10.1959)
Sono sempre stata contraria a prendere posizione in questi lunghissimi anni quando la stampa locale, (vuoi per smania di visibilità da parte di alcuni, vuoi per avversione ideologica), ha pubblicato articoli con affermazioni indegne, offensive, e titoli di una “studiata ambiguità”, che non corrispondono ad una revisione serena dei fatti del primo dopoguerra, inseriti doverosamente nel contesto di quell’ epoca. Come presidente dell’ANPI nel dopoguerra, sei stato in molte occasioni chiamato in causa, diffamandoti, per screditare la Resistenza per quello che hanno fatto a titolo individuale e forse per vendette personali, isolati personaggi, partigiani e non. Mi ha sempre consolato la convinzione che i giudizi negativi su di te sono dettati dal fatto che coloro che li formulano (se sono in buona fede) non ti hanno conosciuto, non hanno vissuto vicino a te durante la guerra partigiana e nel dopoguerra. È sempre stata una scelta di mamma e di Maura (che mi hanno lasciata nel 1998 e nel 2005 ) e mia, di non rispondere sui giornali a certe accuse, per non prestarci al gioco di chi gli articoli li scriveva, riportando invece le nostre versioni dei fatti a te attribuiti, sempre a quattr’occhi, faccia a faccia con chi, desideroso di un po’ di visibiltà, infangava la tua memoria. Noi speravamo sempre, ma molto spesso invano, nell’onestà morale e intellettuale delle persone incontrate. Ciò premesso ritengo doveroso oggi, dopo settimane di vergognosa propaganda nei tuoi confronti, mezzo secolo dopo la tua morte, esprimere le mie riflessioni sul notiziario dell’ANPI, associazione nella quale orgogliosamente cerco, nel limite delle mie possibilità, di dare un contributo anche per rispetto delle tue scelte, delle sofferenze che hai ed abbiamo patito: le privazioni, il confino, quei valori per i quali hai combattuto, cercando di mantenere fede all’impegno che hai assunto durante la Resistenza e che mai hai disatteso. Cose che invece oggi, per alcuni, sono passate, chissà perchè in secondo piano. So che nell’immediato dopoguerra ti sei profuso con grandissimo impegno nel reinserimento di migliaia di giovani partigiani, di reduci di guerra e dalla prigionia, nella società civile. Hai lavorato per la realizzazione del convitto scuola di Rivaltella, da dove uscirono professionalità importanti del mondo del lavoro, per la fondazione delle cooperative, sempre rigorosamente sulla linea democratica indicata da Togliatti. Sei stato un anticipatore della proposta di celebrare a Reggio Emilia la giornata del Tricolore, precedendo quello che molti anni dopo sarà invece il “fiore all’occhiello” del promotore del “chi sa parli”. Che scherzi fa la vita a volte! Hai proposto e preparato tutti i documenti in qualità di commissario delle formazioni partigiane reggiane per la decorazione della medaglia d’oro alla Città. Sei stato un padre affettuoso, un intelligente educatore, un comunista, un anticlericale anche, nel contesto della feroce contrapposizione ideologica di quegli anni. Un padre che ha spiegato alle sue figlie la storia delle religioni ed il perché, noi figlie, avremmo dovuto scegliere autonomamente se credere o meno, indipendentemente dalle tue scelte di vita. Un padre che non ha mai avuto da ridire quando andavamo a giocare nel chiostro della parrocchia di San Nicolò, (ciò che riuscivamo a fare quando il parroco non ci vedeva perché altrimenti ci mandava via). Purtroppo queste frequentazioni non sempre erano accettate dagli altri padri, in quanto pensavano che i loro figli si potevano sporcare avendo vicino la figlia di “uno sporco comunista”. A pensarci oggi, alla mia età, sorrido, ma non si contano le volte che venivamo emarginate dagli altri bambini, nel periodo dei manifesti affissi per le strade della città, che ti tacciavano di colpe che tu hai sempre rifiutato con forza. Le umiliazioni che nostra madre e noi, allora bambine, abbiamo subito e sopportato nella speranza che il “Partito” facesse finalmente luce sulla tua estraneità nella “faccenda Vischi” ed sul perché ti sei trovato costretto, tuo malgrado, a subire duri anni in Cecoslovacchia, per obbedire a direttive e discipline non certo volute o create da te. Sono stati anni di grande sofferenza che riemergono ogni volta che sui giornali ti troviamo rievocato come capro espiatorio di tutto quando successo nel dopoguerra. Ci hai insegnato l’altruismo e la solidarietà verso i più deboli. Ci hai insegnato di non lasciarci trascinare dall’invidia, dal soldo. Ci hai fatto capire molti valori che fortunatamente sono entrati nel nostro Dna e spero di essere riuscita a trasmetterli ai miei due figli; valori che in quel periodo davano però sofferenza a mamma, che non aveva di che sfamarci. Ti sei sempre rifiutato di aiutare i tuoi fratelli e nipoti nel trovare lavoro nel dopoguerra, rifiuto che li ha portati ad espatriare in Belgio e in Svizzera, perché i compagni che avevano combattuto con te in montagna pensavi ne avessero più bisogno. Non c’era mese che non dovessi aiutare un “bravo compagno” o un “bravo partigiano”, che a tuo dire stava peggio di noi. Il peccato del “familismo amorale” davvero non ti potrà mai essere attribuito! Vedendo quello che negli anni è successo e succede ancora oggi, sei stato davvero un compagno politicamente molto tormentato, ma certamente molto onesto e sincero, come ebbe a dichiarare Valdo Magnani. Sei stato sempre accostato a quello che allora era il segretario del Pci reggiano. Accostamento che per me e per la nostra famiglia (ma anche per chi con onestà ha studiato quegli anni), è assolutamente inaccettabile. So che hai condotto una lunga battaglia all’interno del “tuo” partito, per riportare la legalità in una federazione in seno alla quale, l’allora segretario aveva creato un autentico “partito nel partito”. Nel dopoguerra tu sei stato sempre dedito alla ricostruzione del Paese, al ripristino della legalità, fino a quando te lo hanno permesso. E al tuo rientro dalla latitanza in Cecoslovacchia, da te accettata “per disciplina di partito”, fosti continuamente assillato dal voler chiarire la tua posizione: volevi che il tuo nome non fosse associato alle infamanti accuse che ti venivano mosse. In una lettera scritta il 22/12/1956 dicevi: “quando il nemico di classe mi ha condannato, non mi sono interessato per ‘spiegare’ a lui la mia innocenza; ma non posso sopportare una ingiustizia che il partito o i compagni commettano attribuendo a me delle colpe che non ho, oppure sospetti di gravi colpevolezze a mio carico”. Per le illazioni sugli anni di Cecoslovacchia dicevi: “la vita là era difficile e veramente sono stati commessi atti illegali; ma questi avvenivano per l’atmosfera che vi era e indipendentemente dalla mia volontà e di altri compagni. E’ veramente assurdo che sia accusato di tali illegalità, quando proprio IO mi opposi decisamente perchè non venissero commesse : Ho sempre concepito che l’opera più efficace è quella della persuasione e della convinzione”. In una nota di riflessione nel giorno del tuo 39° compleanno scrivevi: ”pensare che ben 13 di questi anni li ho passati al confino, nelle carceri fasciste, nella lotta partigiana…e… che a vent’anni dissi ad un amico ‘So di certo che al mio prossimo ventennio le cose saranno cambiate’ ”. Quando nel dicembre 1966, ti è stata restituita la medaglia d’argento al valor militare (ma tu eri già morto da 15 anni…) tutte le sofferenze che avevamo passate si erano assopite e il modesto assegno annuo era per noi fonte di piccolo sollievo economico. Non è accettabile che nel 2010, quando si parla di te, si ritorni ad utilizzare le medesime menzogne di 60 anni fa. Sono una figlia che orgogliosamente ha riscoperto in età adulta, rianalizzando gli scritti che ci hai lasciato, le sofferenze e le attese della tua giovinezza, le durezze del carcere fascista, la guerra, i tuoi ideali di giustizia, le persecuzioni rinnovate anche a guerra finita. Penso siano davvero poche le figlie che, in così pochi anni di presenza paterna al loro fianco (io avevo 12 anni, Maura 10 anni, quando sei morto), come successo a noi, possano dire di aver ricevuto quanto ci hai trasmesso tu. Grazie (Anna)